Tina aveva novantasei anni, era un vecchietta minuscola, un po’ curva. Da quando suo marito, buonanima, se n’era andato aveva vissuto sola, non senza un certo sollievo. Quell’uomo col quale aveva condiviso casa e letto per oltre sessant’anni era diventato con gli anni sempre più pedante e bisbetico, lamentoso, incontentabile. E non si decideva a morire, una salute di ferro! Grazie a Dio alla fine aveva mollato, alla bella età di 102 anni. Lei aveva sofferto, ci mancherebbe. Ma la casa aveva respirato, senza la sua presenza. Aveva preso possesso di tutte le stanze, compreso il sancta sanctorum del marito, lo studio biblioteca con centinaia di volumi e una comoda poltrona nell’angolo. Si era impossessata della postazione migliore per guardare la televisione, in salotto, e dell’intero letto matrimoniale. Il silenzio all’inizio l’aveva spiazzata, ma presto l’aveva riempito con le voci di radio e tv a tutto volume. Finalmente sola, finalmente libera, passato lo sbandamento inziale si era goduta la vedovanza fino a che le forze l’avevano sostenuta. Niente di straordinario: era uscita qualche volta a pranzo con alcune amiche, aveva mangiato cioccolatini, si era comprata una bottiglia di limoncello che centellinava con molta parsimonia. Nelle faccende di casa l’aiutava una donna russa, simpatica, chiacchierona, un po’ invadente, che aveva la pessima abitudine di portarle in dono pietanze cucinate secondo il suo gusto, che sfortunatamente non coincideva con quello della sua datrice di lavoro. Cercava di non pensare al momento in cui quella presenza saltuaria non sarebbe stata più sufficiente: la sua amica più cara, la Rosy, aveva dovuto prendere una badante, una filippina sorridente che le dava sui nervi.

«Cos’avrà da ghignare, dalla mattina alla sera! Mi tratta come una bambina, peggio, mi tratta come una mentecatta, sono vecchia ma non sono rimbambita. Cosa vorrà dire, “mettiamoci il pigiamino”, non ho mica cinque anni!»

«Non me ne parlare», diceva Gloria, la terza amica. «La mia cucina tutto senza sale, con la scusa che devo stare attenta alla pressione, e mi nasconde le cose, non trovo più nulla in casa mia! L’altro giorno cercavo il plaid da mettermi sulle gambe…»

«E tu, Tina? Quando ti deciderai a fare il grande passo?»

«Dio ne scampi e liberi! Finché mi reggono le forze, sono decisa a farne a meno. Voglio essere libera, in casa mia, anche di girare in mutande e di scoreggiare quando ne ho voglia!»

Anche sua figlia ci si metteva:                       

«Mamma, non mi sento tranquilla a saperti sola. E se cadi? Se hai un malore? Una donna fissa in casa ti farebbe anche compagnia, oltre a sbrigare tutte le faccende. Io, lo sai, ho tanti impegni, la parrocchia, i nipotini, ti prenderei a vivere con me, ma la casa non è adatta…»

Così dovette cedere. La figlia organizzò una serie di colloqui, e alla fine la scelta cadde su Tatiana, una donna moldava di una cinquantina d’anni, magra, con un caschetto di capelli neri e un viso piuttosto spigoloso. Non era tanto espansiva, ma sembrava che sapesse il fatto suo, e del resto a Tina le donne troppo smancerose non erano mai piaciute. Tatiana arrivò con due valigie e un giubbotto di jeans corto in vita. Ispezionò il frigorifero, la dispensa e lo stipetto sotto il lavandino dove Tina teneva l’occorrente per le pulizie. Ordinò una serie di prodotti che la figlia si affrettò ad acquistare. Prese possesso delle medicine che l’anziana assumeva ogni giorno e si autonominò dispensatrice delle medesime. Dopo pranzo insistette perché Tina facesse un sonnellino e più tardi si sedette accanto a lei davanti alla televisione, sferruzzando in silenzio. Severa ma efficiente, pensò Tina, in fin dei conti meglio una donna taciturna che una di quelle chiacchierone che ti sfiniscono coi loro discorsi a vanvera.

La mattina dopo, alle sette e mezzo, Tina si svegliò. Si sarebbe volentieri alzata da sola, ma per l’appunto si sentiva un po’ debole, e poi cosa l’aveva presa a fare la badante, se doveva fare tutto da sé come prima?

«Tatiana!»

«Puttana? Mi stai chiamando puttana?», ripose la donna dalla sua camera.

«Ma no, che vai a pensare! Volevo solo dirti che sono sveglia.»

«Così presto?»

«Mi sveglio sempre a quest’ora, cosa vuoi, noi anziane non dormiamo tanto…»

«Puoi dormire quanto vuoi, e io posso dormire quanto voglio, siamo due persone libere, in casa nostra facciamo quello che vogliamo.»

Casa nostra? Quella era casa sua, perdio. Tina stava perdendo la pazienza, ma cercò di contenersi.

«Potresti venire qui, nella mia stanza?»

«Ho capito bene? Mi hai detto stronza?»

«Questa non capisce un cazzo!», pensò Tina a voce alta.

«Testa di cazzo? Questo è il colmo!»

Dopo tre giorni di quella rumba, Tatiana tolse le lenzuola dal letto e le ficcò in lavatrice, recuperò le due valigie, che non aveva ancora disfatto, indossò il giubbotto di jeans: «Io non ci resisto, vado via», e si avviò verso la porta di casa, non senza essersi fatta pagare quei pochi giorni di lavoro. Non appena sentì sbattere l’uscio, Tina lasciò andare una sonora scoreggia. Che liberazione!

Una replica a “La badante by Marisa Salabelle”

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