Quando vado al Salone del libro o al Pisa Book Festival o a qualche manifestazione analoga, cerco sempre lo stand di Exòrma. È una casa editrice meravigliosa, che fa libri bellissimi, sia sotto l’aspetto grafico che dal punto di vista dei contenuti. Ha due collane principali, una di narrativa, quisiscrivemale, e una di saggistica e viaggi, Scritti traversi. Nella mia libreria ne ho una piccola collezione, altri li ho letti prendendoli in prestito alla biblioteca, e non ce n’è uno che mi abbia delusa. Anche all’ultimo Salone mi sono fermata davanti allo stand, incantata da quella distesa di volumi di piccolo formato, bianchi, con una bella immagine centrale, elegantissimi. L’editore, Orfeo Pagnani, mi ha consigliato La luna e la lepre, di Mario Ferraguti. L’ho preso. Si tratta del resoconto di un viaggio che Ferraguti fa nell’Appennino tosco-emiliano alla ricerca di guaritrici, e guaritori, che “segnano”, “lavano”, “scacciano” i mali, dai più comuni (la distorsione di una caviglia) ai più strani e impensabili (il male della forchetta, ormai quasi del tutto estinto, che fa crescere i bambini magri magri sulle gambette stecchite ma con una grossa testa, così che somigliano a una forchetta messa in verticale). Ferraguti non crede alle segnature, ha avuto il fuoco di Sant’Antonio e si è curato con un antivirale, ma è curioso di questo mondo antico e segreto che ancora cova sotto la patina della modernità, gli interessa conoscere i rituali e le formule, pensa che la medicina tradizionale abbia un vantaggio rispetto a quella moderna, ovvero il rapporto con la persona, la relazione, che invece spesso è carente nell’approccio con un medico specialista che prescrive i farmaci ma non crea un rapporto col paziente e nemmeno con la malattia. Quindi percorre strade e sentieri, va in cerca di paesini semidisabitati, chiede, si informa, e ogni tanto qualcuno viene a sussurrargli all’orecchio che sì, qualche casa più in là vive ancora una donna…
Avvincente come un romanzo, accurato come un testo di antropologia, La lepre e la luna si legge con grande piacevolezza e fa riflettere su temi importanti come la malattia, la guarigione, la cura.
Ferraguti è di Parma e la zona che ha percorso è quella più vicina alla sua città, però, quando ero alle ultime pagine del libro, me lo sono ritrovato a sorpresa a Pistoia, in piazza della Sala. E sì, ricordo la donnina delle uova, che non aveva una bancarella grande e ben organizzata come gli altri venditori, ma solo una sedia e un tavolinetto, dove posava le uova e mazzi di erbe varie, secche o fresche. Dice Ferraguti che, tra le tante, quella donna teneva l’erba lavandaia, che lava via la paura. E mi sono ricordata della nonna di mio marito, che la paura non la lavava, ma la levava: metteva acqua e olio in un piatto, teneva il piatto sopra la testa della persona e a seconda della forma che l’olio assumeva, e se si mescolava più o meno con l’acqua, stabiliva se si trattava di “paura” e con qualche formula la faceva andare via. E poi mi sono ricordata di alcuni famosi guaritori e guaritrici che i pistoiesi frequentavano: il Tramonta, che segnava i porri e il fuoco di Sant’Antonio, la Santona, detta anche Mamma Ebe, il cui vero nome era Gigliola Giorgini, e il guaritore di Prunetta, di cui non ricordo il nome, che abitava nella casa accanto a quella che avevamo preso in affitto un’estate di tanti anni fa: davanti alla sua porta c’era sempre una fila lunghissima. Ora questi anziani sono tutti morti, ma chissà se nella mia città o nei suoi dintorni o su per le montagne che la circondano c’è ancora qualcuno che “segna”…





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