Verso la metà di ottobre Italo morì. Non aveva ancora sessant’anni, e Giulia cinquantadue. Quanti anni erano che stava inchiodato in quel letto, chi se lo ricordava più: e per tutto questo tempo Giulia l’aveva assistito e s’era sorbita i musi lunghi, le risposte sgarbate, le bestemmie. Povero Italo! Quanto aveva sofferto, ma quanto era diventato esigente, incontentabile, scontroso: e quante lacrime aveva pianto Giulia in cucina, mentre preparava da mangiare. Basta: era tutto passato, ormai, ma non c’era da credere che per quella povera donna le preoccupazioni fossero finite. C’era Paolo, tanto per cominciare: e che mai avrebbe fatto Paolo quando lei non ci fosse stata più? Forse se lo sarebbe preso sua sorella, chissà! E Luigi, il figlio maggiore, a ventisette anni era ancora senza arte né parte, uno spilungone che ciondolava da un lavoretto all’altro – per due mesi era bidello supplente, per altri tre impiegato alle poste. D’estate faceva lo stagionale in un vivaio, e poi veniva assunto come commesso in una libreria ma in capo a qualche giorno si licenziava; cominciava a lavorare in un cantiere ma si slogava una caviglia e doveva smettere…

“Quando ti sistemerai, figlio mio?” gli domandava Giulia ogni volta che gli sentiva snocciolare quelle sue storie sconclusionate.

“Quando si sistemerà tuo fratello?” domandava a Rosanna, sua figlia.

Entrambi le rispondevano con una spallucciata. Luigi era fatto così. A lui bastava lavorare cinque o sei mesi all’anno, non aveva grandi esigenze, non spendeva molto, lui: quello che gli piaceva era avere lunghi periodi d’ozio in cui riposarsi, leggere, andare al cinema, viaggiare. Gli andava bene così. Sgobbare non gli piaceva: a quale scopo, poi. E d’altra parte, non c’erano molti giovani, oggi, che la pensavano come lui? Prendiamo quei ragazzi della comune, per esempio. C’erano solo Ada e Lisa che avessero un vero e proprio lavoro: erano maestre e tutte le mattine se ne partivano sulla mini blu di Lisa per andare a scuola. Gli altri, si arrangiavano tutti in qualche modo. Alberto faceva orecchini e spille e poi andava a venderli a Badia nei giorni di mercato; Renzo andava in giro a fare piccoli lavoretti e riparazioni: s’era fatto un po’ di pubblicità a Montagna Brulla e nei dintorni e lo chiamavano a sostituire una presa o un rubinetto, a dare un’occhiata a un televisore; e poi agli anziani faceva la spesa, pagava i bollettini alle poste, riscuoteva la pensione. Gli altri stavano in casa, badavano all’orto, ai polli e ai conigli, tenevano in ordine la casa, facevano da mangiare.

Tutto questo era stato deciso di comune accordo, ma ben presto nacquero dei dissapori. Ada e Lisa tornavano da scuola e si lamentavano perché il pranzo non era pronto.

“Pretendete di entrare in casa e trovare la tavola apparecchiata e la minestra scodellata, siete peggio dei maschi di vecchio stampo”, gli rinfacciava Cecilia.

“Non è questo, è che tu e Letizia ve ne state tranquille a casa tutta la mattina e una pentola d’acqua a bollire la potete anche mettere”.

“Io e Letizia? E Franco non conta? Ah già, lui è un Uomo! L’ho detto, sei peggio di mio padre”.

“Ma sì, anche Franco. Certo che ci può pensare anche Franco”.

“Guarda”, intervenne Letizia, “che qui non è che ce ne stiamo a grattarci la pancia. C’è da pulire, da governare le bestie, c’è l’orto, e poi io  ho da studiare e Cecilia stamattina si è sentita male”.

“Poverine, se continuate a sforzarvi così vi verrà un esaurimento!”

Lisa se ne andò su per le scale, nera come un cappello.

“Non ci far caso, Letizia”, disse Ada in tono conciliante, “è che dopo una mattinata di scuola siamo a pezzi. Lisa ha una quinta che te la raccomando – la fanno ammattire, quei bambini. Certe volte mi vien da pensare che sia stato uno sbaglio adottare un metodo non repressivo…”

“Lo so, ma pure noi qui abbiamo i nostri problemi”.

“Cosa credi?” Cecilia era ancora inviperita. “Qui  tutta la mattina a sorbirci le chiacchiere senza senso di Paolo, e Giulia che ogni tanto viene a vedere che fa suo figlio, e attacca il disco delle lamentele; e quelle due vecchie che ci guardano storto, e i polli, i conigli, e in fin dei conti non son mica venuta quassù a far la casalinga. Restavo a casa mia e mi sposavo, se volevo far la casalinga!”

E Cecilia uscì, sbattendosi la porta alle spalle.

Diverbi di questo genere non erano infrequenti. Ada e Lisa sostenevano di essere le sole a portare soldi a casa, Franco allora fece notare che la casa era sua, al che fu ricoperto di insulti e tacciato d’essere borghese, possidente, sfruttatore del proletariato, fascista.

A Renzo, viceversa, fu rimproverato di farsi pagare per le piccole riparazioni e le commissioni che faceva in giro: da poveracci si faceva pagare, da pensionati, da famiglie che a malapena mettevano insieme il pranzo con la cena. Stava riproducendo pari pari i modelli della società borghese, non se ne rendeva conto? Iniziativa privata, individualismo, sfruttamento, denaro, denaro marcio. Renzo rimase di sasso: non gli era sembrato di sfruttare nessuno, anzi: la gente era contenta, tutti avevano sempre qualche incarico da affidargli, lo chiamavano dalle finestre e dagli orti, lo mandavano di qua e di là. In fin dei conti molti erano dei vecchietti senza macchina, per i quali andarsi a comprare un paio di scarpe era già un problema, senza contare che la maggior parte di loro non sapeva compilare in modulo di conto corrente o richiedere un certificato. Si faceva pagare, è vero, ma si trattava di cifre irrisorie, il minimo indispensabile: o doveva sbattersi in giro tutto il giorno senza riprenderci nemmeno i soldi della benzina? In qualche modo doveva campare, anche lui.

Giusto, campare, gli replicavano. Ma doveva proprio vivere alle spalle di quella povera gente? E se era un servizio, quello che gli faceva, perché non si faceva pagare dal comune? Ecco cosa doveva fare: andare a Badia, in comune, ed esigere che fosse il comune a retribuirlo per il lavoro che faceva, un lavoro da assistente sociale, un lavoro che toccava alla società pagare.

“Sono preoccupata”, disse Letizia a Cecilia una sera, mentre chiuse in bagno si preparavano ad andare a letto, “perché ho un ritardo”.

“Quanti giorni?”

“Saranno una decina, ormai”.

“Dieci giorni? Allora è fatta, ragazza mia!”

“Tu credi, veramente? Perché sai, io non sono proprio regolare… “ Letizia osservò con aria perplessa lo spazzolino da denti prima d’infilarlo in bocca. “Forse dovrei fare le analisi, che ne pensi?”

“Lo sai almeno chi è il padre?”

“Il fatto è questo, non ne son sicura”.

Non ci fu bisogno di fare le analisi, in realtà, perché mentre il ritardo continuava Letizia cominciò ad avvertire i primi sintomi di uno stato che non era il suo usuale. La mattina si svegliava con un vuoto di stomaco, che ben presto si trasformava in un senso di nausea; il sapore del dentifricio e l’odore del caffè le procuravano gli urti del vomito. Aveva sete, una sete da morire, e il pomeriggio veniva assalita da un’invincibile sonnolenza. “E’ tutta suggestione”, diceva a se stessa, e ogni volta che andava al gabinetto controllava se le mutande fossero macchiate, con una speranza che andava scemando di giorno in giorno. Finalmente si decise a parlarne col gruppo.

“Incinta? Ma ne sei sicura?”

“Be’, a questo punto credo di sì”.

“E non c’è modo di rimediare? Di sbarazzarsene?”

“Conosco una, in città, che ha fatto abortire una mia amica; è una donna che sa il suo mestiere, non c’è alcun rischio”.

“Certo, devi farlo, Letizia, non c’è altra soluzione”.

“Ma almeno si sa chi è il padre?”

“Non vorrai abortire, Letizia”, intervenne Renzo in tono ispirato. “La vita è un dono di Dio, bisogna proteggerla, salvaguardarla”.

“Imbecille, se lei in Dio non ci crede, che cazzo dici!”

“Insomma, lasciatemi parlare! Io non me la sento di buttarlo giù. Ormai che c’è, lo vorrei tenere. In quanto al padre… non ne son sicura. Inutile che vi dica il nome di chi potrebbe essere: chi di voi ha fatto l’amore con me, lo sa. Avevamo detto che se fossero nati dei bambini li avremmo allevati tutti insieme, che ripudiavamo il concetto tradizionale di famiglia, che anche la procreazione era un fatto politico… Ecco, questo è il nostro primo bambino: non siete contenti? Non siete contenti di diventare babbi e mamme?”

“E’ vero, Letizia ha ragione, sarà il nostro primo bambino”.

“Ma quale ragione, se vuol fare un figlio son cazzi suoi, ma sia ben chiaro che è una cosa che riguarda esclusivamente lei!”

La discussione durò ancora a lungo, infine fu deciso che Letizia avrebbe avuto il bambino e che questo sarebbe stato considerato come membro effettivo della comunità; che avrebbe chiamato tutti per nome, compresa la madre, e che non gli sarebbe stata rivelata l’identità dei suoi genitori carnali almeno finché non fosse stato maggiorenne (e come farete a iscriverlo a scuola, idioti, se non gli darete un cognome, e quindi almeno un genitore, aveva interloquito qualcuno, che però era stato immediatamente zittito: che bisogno avrebbe avuto, il loro figlio, della scuola borghese e di tutte le altre istituzioni di questa marcia società : e in ogni caso, di qui che andasse a scuola, ci sarebbe stato tutto il tempo per pensarci); che sarebbe stato educato in maniera non repressiva e avrebbe assimilato insieme al latte i valori in cui il gruppo credeva. Infine si discusse sul nome da dargli: furono proposti Lenin, Ernesto Che, Proletario o, per un’eventuale femmina, Libera. A Lisa sarebbe piaciuto, invece, Sole, o Vento, per il maschio, e Fiaba o Luna per la femmina. Renzo propose Carità.

Certo quello fu un inverno terribile. Cominciò con una lunga serie di piogge, cui seguì la neve, precoce (non si era nemmeno alla fine di novembre) e abbondantissima. Per tre giorni i pochi abitanti delle Susina rimasero tagliati fuori dal mondo, chiusi in casa a guardare fuori dalla finestra quel deserto bianco e grigio e a mangiare scatolette; il quarto giorno gli spalaneve vennero a liberare la strada. Ma anche quando la situazione si normalizzò, la neve si trasformò in una fanghiglia scivolosa e le strade furono di nuovo percorribili, Dio quant’era gramo l’inverno! Quant’era lungo, lungo e lungo! Le giornate, nella casa del vecchio Dante, non passavano mai. La mattina, quando ci si levava, era ancora notte. Un freddo, a uscir dal letto, una tristezza. Beati quelli che non si alzavano, che non dovevano andare a sbattersi in una scuola a far compagnia ad una ventina di scalmanati. Almeno se ne stavano sotto le coperte un po’ più a lungo. Al contrario, pensavano questi ultimi, almeno chi andava a lavorare avrebbe visto un po’ di mondo, fosse anche la scuola elementare o la piazza del mercato di Badia. Badia era New York, in confronto alle Susina.

Lentamente il cielo si schiariva, e subito si vedeva che giornata sarebbe stata. Nebbia, o pioggia; qualche volta era pure sereno. La mattina era lunga, ma niente a paragone del pomeriggio. Il pomeriggio in  genere erano tutti a casa. Chi leggeva, chi giocava a carte. La televisione non ce l’avevano, non l’avevano voluta. Era stata una scelta: ma ora qualcuno, senza dirlo, cominciava a pensare che fosse stata una scelta sbagliata. Discussioni impegnate ne nascevano sempre più raramente, e spesse volte finivano in litigio. Nemmeno la domenica le cose andavano meglio: i primi tempi c’era sempre qualcuno, i genitori, i fratelli più piccoli, le sorelle sposate coi loro bambini, gli amici che non se l’erano sentita di condividere quella scelta di vita ma che, manco a dirlo, “l’approvavano in pieno”. Si facevano risotti, spaghettate, polli arrostiti sulla brace. Poi, col passar del tempo, le visite si erano diradate. Faceva freddo, pioveva, era una stradaccia; il babbo non poteva guidare, con quella noiosa periartrite, i bambini avevano beccato l’influenza. Gli amici telefonavano (l’unico telefono, alle Susina, era quello di Giulia): sarebbero venuti volentieri, ma erano senza macchina; andavano a una manifestazione; andavano al cinema. Domenica prossima, sicuramente…

I pomeriggi festivi sgocciolavano lenti, peggio ancora di quelli feriali. L’aria dello stanzone a pianterreno era greve di fumo e impregnata degli odori del cibo. Qualcuno si faceva il caffè, qualcuno andava in camera a far l’amore, più che altro per noia e per scacciare il freddo, qualcuno leggeva e qualcun altro faceva una scappata da Paolo a sentire i risultati delle partite.

Una replica a “La comune, racconto di Marisa Salabelle Parte 2”

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