Ero nell’antica capitale Mdina -la città silenziosa- e toccavo con mano e orecchie la coorte di onde sonore che si infrangevano nella cupola della dimenticanza. La coorte di onde sorde era un gemito fermo, nemmeno un piccolo lamento trapassava le mura di cinta arroccate e attorcigliate nella loro essenza. Sembrava esserci un cuscinetto, una sorta di esercito di guerrieri di terracotta che anziché consentire l’oscillazione sonora, fermava con tutto il corpo e l’armatura possente il rilascio del tanto temuto suono.
Mi scoprivo avida di passi.
La pelle creava solchi, giardini fossili sul corpo, reagendo alle increspature epiteliali dovute al sole che giungeva su di me scortato dalle spalle del vento di Scirocco e respiravo, nell’aria, aroma di semi di sesamo tostati scoppiettanti e pronti ad infrangersi tra le braccia del miele colato.
La mente si era fatta crisalide, una splendida pupa pronta a volare.
Ripensavo al silenzio e ai miei pazienti.
Si sposa la dimensione silenziosa quando decidi di affrontare il mondo della psiche. Sposi il caos e il delirio, la paura e il controllo (la sua perdita o la sua ossessione); sposi gli incubi e il dolore. Ceni con il panico e ti trovi a fare pause caffè con la speranza.
Il tutto accade nel momento presente, affondando le radici nel suo stesso passato proiettandosi in un futuro incerto viaggiando, però, nell’intimo del silenzio.
Si pensa che il paziente parli e si sveli noi attraverso le parole; é invece nel, tra e attraverso il silenzio che il paziente svela il proprio mondo interno. E’ nel silenzio che l’involucro psichico dispiega le proprie ali nel mentre si svela e rivela attraverso il suo personale linguaggio.
La cura parlata (talking cure) è innanzitutto una cura ascoltata
(del e nel silenzio).





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