Parte II

Col declinare dell’estate e la venuta dell’autunno, mentre il rosso e l’oro si sostituivano al verde e per terra le foglie scricchiolavano sotto i piedi – la mattina una bruma leggera veniva su dal terreno e al tramonto il cielo assumeva un tenero colore rosato – i boschi si popolavano di donne e bambini per la raccolta delle castagne. Il silenzio era interrotto dalle battute scherzose che le donne si scambiavano, dalle risate o dai pianti dei bambini, dalle grida di richiamo e dalle esclamazioni. In queste occasioni don Filippo amava mescolarsi a quello che chiamava “il suo popolo”: i ragazzetti del catechismo, le frequentatrici abituali o saltuarie della messa festiva, le donne che di tanto in tanto si venivano a confessare e quelle che incontrava quando andava a far due passi in mezzo ai campi o nelle aie, dove, sedute su seggiole impagliate, sgranavano i fagioli o ricamavano il corredo per le figlie.

Giuliano invece preferiva starsene in casa e si aggirava per i saloni del pianterreno, “come un’anima del purgatorio”, diceva sua madre: sfogliava un libro, stando in piedi vicino allo scaffale da cui l’aveva tratto, o tentava qualche accordo al pianoforte; sostava a lungo di fronte al ritratto di un oscuro antenato, morto cinquant’anni prima che lui nascesse; faceva sbriciolare premendoli tra le dita i petali dei fiori che sua madre aveva messo a seccare per farne dei quadretti – e sempre con quel pensiero fisso in testa, quel tarlo che lo rodeva.

Ma poi cominciò il freddo, le castagne erano state raccolte, la gente si chiudeva in casa – Giuliano usciva con una sciarpa al collo e un libro sotto il braccio, lo sguardo spiritato. Che avrà quel ragazzo, mormoravano i genitori scuotendo la testa, mentre la cameriera e la cuoca si guardavano sconsolate: proprio gli occhi del pazzo, aveva, che peccato, un bambino così intelligente… morboso, però, sì, morboso era sempre stato.

“L’avevo detto io, che non faceva una vita sana, sempre in mezzo ai preti, sempre con quei libri in mano, guarda il mio Paolo, lui sa a malapena scrivere il nome, libri non ne ha mai letto, ma se Dio vuole è bello colorito, non bianco come un cencio come questo qui, e grilli per la testa non se n’è mai messi”.

Così diceva Fidalma, la cuoca, e la cameriera Gianna annuiva.

Intanto Giuliano era bell’e arrivato alla chiesetta, dove aleggiava quel noto odore di fiori appassiti e d’acqua putrida. S’affacciava alla porta della canonica, che grazie alle cure dell’anziana ma battagliera zia di don Filippo aveva acquistato un aspetto quasi accogliente e perso, se non del tutto, certo in gran parte, il tanfo pestilenziale che vi albergava da chissà quanti anni: nello studiolo dove don Filippo stava rintanato, il camino era acceso e sul fuoco le castagne arrostivano, nella grande padella nera forata, sprigionando un caldo profumo. C’era una poltrona di cuoio, piena di screpolature ma ancora accogliente, proprio di fronte al focolare, ed era là che la zia sedeva di solito, quando non aveva da fare in cucina, e portava avanti un interminabile lavoro all’uncinetto. Don Filippo sedeva a una scrivania sul cui ripiano s’ammucchiavano libri, lettere, paginate di appunti e promemoria. Con un ampio sorriso accoglieva il giovane amico, che prendeva posto di fronte a lui: i due parlavano di questioni filosofiche e religiose con la serietà degli anni giovanili, quando ci s’illude di essere sempre sul punto di scoprire il nocciolo segreto della vita. I sentimenti che provavano l’uno per l’altro erano gli stessi, con la differenza che, se Giuliano era fin da bambino abituato a trascorrere molte ore insonni esercitando l’arte dell’introspezione, e di conseguenza conosceva bene se stesso, i propri desideri e le proprie inclinazioni, Filippo, innocente come l’acqua, non aveva ancora mai gettato uno sguardo dentro di sé e pertanto era all’oscuro di ciò che si celava negli abissi del proprio animo.

Tornò infine la primavera e i due ripresero le loro passeggiate: anzi, decisero di rivolgersi a mete più ambiziose di quelle esplorate l’estate precedente. Partivano al mattino presto, portando in spalla un sacco contenente le provviste necessarie, e salivano su per la montagna, per sentieri che s’inerpicavano sempre più ripidi e impervi, non praticati da nessuno, se non da qualche pastore; a un tratto la vegetazione si diradava e comparivano declivi ricoperti da un’erba corta e spinosa: qua e là resistevano larghe chiazze di neve dura come sasso, grigia e morta, a testimoniare che l’inverno non era finito da molto tempo. Erano costretti, a volte, a camminare curvi, sotto venti furiosi; altre volte un tepore inusitato li sfiorava, come se Dio si degnasse di far loro una carezza – e dalle alte cime vedevano stendersi ai loro piedi valli, boschi e prati – le macchie giallastre delle pecore al pascolo e qualche casolare mezzo crollato.

Scelto un punto riparato, sedevano e aprivano il sacco, affamati per la lunga camminata; quel che accadesse loro durante quei pomeriggi, le cui particolari caratteristiche – la solitudine, l’altezza, il trovarsi così pericolosamente lontani dalle comuni persone che popolano ogni sorta di vie su questa terra e così spaventosamente vicini all’alito possente di Dio – potevano indurli a credere di trovarsi a un passo dalla rivelazione della Verità – non è dato sapere. Sta di fatto che in un tiepido mattino di maggio don Filippo fu trovato, da sua zia, che come ogni giorno era entrata nella sua stanza a dargli il buongiorno e a portargli una tazza di caffè, che penzolava dal soffitto, il collo stretto in una fune e la lingua ciondoloni.

L’impressione destata dal gravissimo evento sul popolo di Pratello fu, com’è facile immaginare, enorme. Don Filippo era così giovane! E si era installato nella parrocchia da neanche un anno! E soprattutto – il suicidio! Un gesto così tragico, da parte di colui che sembrava solo un buon ragazzone troppo cresciuto, che era così simpatico, così affabile, così alla mano! Che cosa, che cosa mai poteva averlo spinto a un’azione simile – un’azione definitiva, senza ritorno? Forse cattive notizie giuntegli dalla sua famiglia, la malattia, la morte di qualcuno, ma no, la zia non ne sapeva nulla, a casa tutto andava come sempre, i genitori erano ancora vivi, stavano bene. Problemi economici, magari, o forse amorosi: le ipotesi si moltiplicarono, furono richiamati alla mente i giorni trascorsi, le ultime volte che era stato visto in giro, le ultime messe che aveva celebrato. Era sereno, sorridente come sempre, o non appariva forse turbato – distratto – un po’ pallido?

“Ti ricordi, Rosina”, diceva a un tratto la Cesira, posando la mano su un braccio dell’amica, “dovemmo salutarlo due volte prima che s’accorgesse di noi, quella mattina al lavatoio: e non ti sembrò un po’ strano, pensieroso? Non era lui , no”. E la voce le si spezzava, la commozione la prendeva alla gola.

Centinaia di aneddoti di questo tipo, nei quali la fantasia popolare esprime al meglio le sue doti creative, formarono per mesi la sostanza di ogni conversazione, in ogni casa, in ogni sentiero e campo là intorno.

“Gesù Maria”, si lamentavano le vecchie, asciugandosi le mani nel grembiule, dopo aver rigovernato i piatti, “ma se non ce l’hanno i preti un po’ di fede, che cosa dobbiamo fare noi?”, e i vecchi crollavano la testa: tutti si sentivano più soli, ora che il loro parroco li aveva abbandonati in quel modo.

Molte congetture furono fatte: si parlò di una crisi spirituale, un vuoto nel quale don Filippo sarebbe stato risucchiato come in un vortice; si prospettò l’eventualità di un attacco improvviso di follia; si pensò che il giovane, così attraente e così sprovveduto, fosse caduto nelle insidie dell’amore e la paternità di tutti i bambini che nacquero nei dintorni di lì a tre anni fu attribuita a lui. Ma ci fu anche qualcuno cui il figlio piccolo dei padroni non garbava né punto né poco, qualcuno che ricordò di aver visto i due giovani insieme in chiesa, in sagrestia, in canonica e a spasso, e che scrollando la testa sentenziava:

“Quel ragazzo non mi ha mai convinto del tutto. E’ troppo strano”.

Nessuna di queste voci giunse fino a varcare il portone della casa padronale, dove nel frattempo Giuliano si era rintanato, sconvolto dalla tragica notizia. Egli fu assalito da una violenta febbre, che lo tenne a letto per quasi un mese; quando infine si alzò era pallido, smagrito, e aveva lo sguardo più fisso e allucinato del solito. Da allora non uscì più di casa e prese ad aggirarsi per le stanze come chi non ha più nulla da fare a questo mondo; parlava poco, e quando lo faceva, la sua voce si alzava in note stridule. In seguito si dedicò a scrivere un Trattato – che col passare del tempo divenne un Dizionario e poi un’Enciclopedia – degli odori, da lui raccolti e catalogati con precisione maniacale e un’aggettivazione estremamente accurata.

Il Trattato suddivideva gli Odori in due grandi categorie: quelli dell’Esterno e quelli dell’Interno, che a sua volta contemplava l’Interno delle Case e l’Interno delle Chiese. Della prima categoria facevano parte gli Odori della Terra, Asciutta e Bagnata; i Profumi di ogni sorta di Piante, Fiori, Frutti della Campagna e del Bosco; l’Odore delle diverse Bestie e delle loro Urine e Feci: tutta questa parte il giovane l’aveva compilata a memoria o sulla base di indicazioni fornitegli da certi suoi collaboratori, scelti tra i figli della servitù, che sguinzagliava per i campi e i boschi come tanti segugi e che poi a lungo interrogava, prendendo accuratamente nota, con grafia minuta, su un piccolo quaderno dalla copertina nera, di ogni parola usata per descrivere sensazioni e percezioni: ed essendo questi dei ragazzotti semplici e assolutamente privi d’istruzione, spesso era lui a suggerire loro le parole appropriate, indagando con domande che non sempre quelli capivano, distinguendo e sottilizzando, disquisendo a lungo sulle minime sfumature di significato che corrono, ad esempio, tra un Aroma e una Fragranza, tra un Effluvio e un Olezzo, o sulle ben più note differenze che scavano un abisso incolmabile tra il Tanfo di un Ovile Abbandonato, le cui pareti sono ricoperte da un velo verdognolo di muffa, e il Fetore di una Carogna che sta disfacendosi sotto il sole.

Per quanto riguarda, invece, gli Odori aleggianti all’Interno delle Case e delle Chiese, Giuliano si fidava solo di se stesso, e trascorreva la maggior parte del suo tempo ad affinare la propria capacità olfattiva, avendo a disposizione un materiale vastissimo che poteva essere segmentato praticamente all’infinito, tante erano le varietà degli Aromi, dei Profumi, degli Effluvi e dei Puzzi e perfino dei Sentori appena appena accennati – quelli che senza un naso ben esercitato nemmeno si avvertono – che si possono annusare in una casa così grande e popolata da una così varia compagnia umana. Con infinita pazienza e precisione, e senza perdersi d’animo per l’aprirsi di sempre nuovi abissi da esplorare, egli dedicò un capitolo agli Odori della Cucina, presi singolarmente e – quel ch’è più difficile – mescolati tra loro: come quell’ “Odore di Cavolfiore Lessato che domina, senza soffocarli, sull’Acre esalazione del Fumo proveniente da Legna Umida che bruci nella stufa, sul Profumo corposo di Vino Rosso sturato da poco, sul Tanfo della Rigovernatura di Piatti e sull’Afrore emanato dalle Ascelle della Serva che a essa attende”, che gli era costato non poca fatica ricondurre, dal buio indistinto delle percezioni primordiali, al rigore della Ragione che tutto cataloga e definisce. Altri capitoli furono dedicati alle Esalazioni delle Camere da Letto nei vari momenti della giornata, ai Profumi dei Salotti e dei Salottini, ai Fetori e Miasmi provenienti dai Gabinetti di Decenza.

Anni ed anni furono necessari a Giuliano per portare a compimento la sua opera grandiosa: anni che trascorse esplorando la casa, le narici aperte e dilatate al massimo, la fronte corrugata nello sforzo di tradurre in parole le sensazioni; interrogando i suoi segugi e tutte le persone che gli capitavano a tiro; consultando senza posa il vocabolario e aggrottando le sopracciglia alla ricerca della parola esatta. Egli borbottava spesso tra sé, confrontando e soppesando nomi e aggettivi, provando frasi e definizioni; a chi gli domandava come procedesse il suo lavoro rispondeva, nei momenti di ottimismo, “Eh, c’è da fare, c’è da fare ancora!”, mentre quando la sfiducia lo assaliva crollava desolatamente la testa dicendo: ” E’ un maledetto guaio: non se ne viene a capo in nessun modo”.

Inutile precisare che la sezione più importante del Trattato, la più minuziosa e senza dubbio la meglio riuscita, fu quella dedicata agli Odori delle Chiese, all’interno delle quali erano classificati gli Odori della Polvere, della Muffa, dei Fiori Freschi  e di quelli Appassiti e dell’Acqua Marcia stagnante nei Vasi; e mille altri ancora, ciascuno corredato da una sfilza di aggettivi, presi uno per uno e considerati nelle loro infinite mescolanze.

Va da sé che una sezione così importante Giuliano dovette redigerla fidando esclusivamente nella propria memoria, giacché per una materia così delicata dei suoi scagnozzi non si fidava, aiutandosi a malapena coi pochi appunti che aveva preso da ragazzino: perché in una chiesa, finché campò, non ci rimise più piede.

Una replica a “Il Trattato degli Odori Racconto di Marisa Salabelle”

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