Nel 1916, durante la Prima Guerra Mondiale, in Toscana, fiorì una passione ardente tra Rina Faccio, nota come Sibilla Aleramo, una scrittrice costretta a maturare precocemente, e Dino Campana, un poeta che conservò la sua innocenza infantile per troppo tempo. Questa storia d’amore fu così eccezionale che non trovò spazio nelle opere di entrambi gli scrittori, rimanendo scolpita solo nelle loro lettere private.
Queste lettere, sebbene possano sembrare superficiali nella loro espressione d’amore, celano angosce e segreti di notevole profondità.
Marina Zancan, la custode dell’archivio di Sibilla Aleramo, ha descritto questa corrispondenza come “ricca di suggestioni,” sottolineando la capacità di Sibilla di assumere una voce narrativa, in linea con la sua concezione di trasformare la propria vita in un capolavoro, come annotato nel suo diario.
Tuttavia, la studiosa Fabiana Cecchini ha interpretato queste lettere come un amalgama di autobiografia e romanzo, in contrasto con l’opinione di Zancan.
È fondamentale notare che queste lettere rappresentano l’unico periodo di significativa produzione scritta di Sibilla sulla sua relazione con Dino. Le lettere di Sibilla a Campana sono ora custodite presso l’Istituto Gramsci di Roma, grazie a Franco Matacotta, che le ottenne da Sibilla durante il loro legame.
Tuttavia, la pubblicazione di queste lettere è stata oggetto di controversia, poiché Matacotta ha accusato Sibilla di non rispettare le volontà di Dino, citando la frase “Le mie lettere sono fatte per essere bruciate” da una lettera inedita di Dino. Cambiando idea sulla destinazione delle sue lettere poco prima della sua morte, Sibilla le affidò al Partito Comunista Italiano, che le trasferì all’Istituto Gramsci nel 1960.
La pubblicazione delle lettere avvenne dopo molti anni di titubanza da parte di Sibilla, che temeva di sembrare esibizionista. Fu Niccolò Gallo a convincerla a farlo nel 1958, e successivamente, nel 1973, Falqui pubblicò la stessa corrispondenza. Nel 1987, Bruna Conti curò un’edizione delle lettere, accompagnata dal suo libro “Un viaggio chiamato amore.”
Le lettere scambiate tra i due autori, così come quelle tra amici, ci permettono di gettare uno sguardo profondo nei loro mondi dal 1916 al 1918, concentrando principalmente l’attenzione sui primi due anni. Le lettere del 1918, tra cui due di Dino rimaste senza risposta, narrano una storia che non ebbe un lieto fine.
Ne riporto qui due: una di Dino e una di Sibilla.
Mia cara amica,
sono troppo stanco e troppo ammalato per cercar di comprendere. Prendo il partito dei più deboli, il mio solito partito: parto.
Regalo a chi ne ha bisogno quel poco di poesia che può essere sorta in te dal nostro amore. Non posso dirti altro dopo questo. Mia cara sono realmente ammalato non ho potuto sopportare l’attesa e le tue lettere. Ricevo ora il telegramma. Parto domattina per la Casetta. Là c’è il silenzio.
Io ti amo tanto e rimpiango la poesia solo perché essa saprebbe baciare il tuo corpo di psiche e il tuo viso roseo e nero colla bocca sfiorita di faunessa.
Perdonami se non voglio essere più poeta neppure per te. Sai che neppure le acque e neppure il silenzio sanno più dirmi nulla — e senti la mia infinita desolazione. Ti porto come il mio ricordo di gloria e di gioia.
Ricorda quando soffrirai colui che ti ama infinitamente e porta per sé solo il tuo colore.
L’ultimo bacio dal tuo Dino che ti adora
Ottobre 1916
Firenze, 25 aprile 1917
Ti mando dei versi qualunque, soltanto perché tu veda che anch’io in questi giorni pensavo che la “vita è un circolo vizioso”… Ma lo pensavo diversamente da te, mio povero Dino. Del resto, se ho ancora la grazia di sentire in qualche attimo il ritorno eterno della purezza nel mondo, non soffro però meno. Dino, ti amo ancora. In questi tre mesi son rimasta fedele alla mia passione, in un modo che tu non puoi forse neppur immaginare. Ma, mentre sono ancora cosi tua, ti dico a mia volta addio. Non so che cosa mi aspetta. Forse le primavere, se torneranno per me, torneranno tutte come questa, deserte. Sia fatta la volontà di Iddio. È morta mia madre, l’ho saputo troppo tardi per rivederla. Forse partirò domani, non importa per dove. Non ho da mandarti le traduzioni che mi richiedi, e non vedo come procurartene in questo momento. Addio, Dino, che tu possa ritrovar la poesia nella tua anima – e ricordarti qualche volta dell’anima mia.
Ma si, sempre
Sento che sorrido,
intenerita,
c’è pudore e c’è grazia puerile
in questo che m’investe,
sola,
tremore improvviso,
oh luce tra le rame gemmate,
sera che avvicini la primavera,
sento che sorrido,
intenerita,
cosi tersa cosi lieve e presente
la vita,
con un suo senso anch’essa di casto bene,
ridente,
di un’ora che torna, torna, ma si, sempre
di un’ora sospesa,
oh nuova!
Sibilla Aleramo
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