Dovevano essersi fumati qualcosa di forte, ecco cosa. Perché diversamente non si spiegava. Incuranti di ogni opportunità, della pochezza delle loro forze, presi da un incomprensibile delirio di onnipotenza avevano messo in cantiere una serie di eventi, che ne sarebbe bastato uno a stenderli definitivamente. Pochi e già sommersi da impegni familiari e professionali, i più giovani, o devastati dagli acciacchi, i più vecchi, quegli sciocchi idealisti cosa credevano, di poter veramente fermare le guerre, che nel frattempo si stavano espandendo a macchia d’olio, con le loro iniziative folkloristiche? Una fiaccolata per la pace, figuriamoci. Un presidio di pace nel centro della città, dove pochi sfigati distribuivano cartoline arcobaleno da appendere ai rami di un ulivo generosamente offerto da uno dei vivai per cui la città era famosa. E ora, tutto in un colpo, un convegno aperto alla cittadinanza, un matinée dedicato alle scuole e una mostra fotografica. Sul serio, che cosa avevano in mente?
Era chiaro che bisognava darsi da fare per organizzare il tutto e bisognava farlo per tempo. Individuare i relatori per il convegno, ottenere l’adesione delle scuole per il matinée, trovare le location, cercare degli sponsor. Scrivere richieste formali, realizzare volantini e manifesti, scomodare tutta una serie di amici e conoscenti, fare pubblicità sui social. Via via che passavano le settimane l’attività diventava frenetica. I telefoni erano diventati bollenti, il gruppo WhatsApp eruttava in continuazione nuovi messaggi. Il relatore numero 1 non aveva ancora confermato, la relatrice numero 2 dopo aver garantito la sua presenza aveva declinato per sopraggiunti problemi familiari, la relatrice numero 3… meglio non parlarne. Le scuole non rispondevano alle mail, le insegnanti contattate personalmente si barricavano dietro le necessarie deliberazioni del consiglio di classe e del consiglio d’istituto, la tale associazione non aderiva, la talaltra avrebbe aderito tanto volentieri ma… La questione più rognosa si rivelò essere la mostra fotografica. Si trattava di una mostra itinerante realizzata da carovane di pace nel corso di diversi viaggi nelle regioni devastate dalla guerra: praticamente si trattava di beccarla tra una prenotazione e l’altra, riuscire a metterci le mani sopra, avere nel frattempo trovato una location adatta, reperire delle griglie o espositori di qualsiasi tipo, per passare infine all’allestimento vero e proprio.
«Le sale affrescate del Comune sono già occupate.»
«Il cortile interno del tribunale è in restauro.»
«Il convento di San Domenico non risponde!»
«Quello di San Francesco ci può ospitare nel chiostro, ma non ha espositori e non possiamo usare le pareti che sono costellate di lapidi…»
«L’avevo detto che era un casino!»
«Io me ne lavo le mani! Non ne voglio più sapere.»
Per complicare il tutto, continuavano a saltar fuori lamentele e pettegolezzi. Tizio, dell’associazione Xyz, si era offeso perché non era stato invitato all’evento.
«Ma come, se l’ho invitato io stessa!»
«Sì, ma a voce: lui voleva una lettera formale…»
L’associazione Zyx, viceversa, sarebbe intervenuta, ma avrebbe portato con sé il labaro.
«Il labaro? E cos’è, una razza di cani?»
«Ti confondi col labrador. Il labaro è un’insegna, un gonfalone…»
«E parlate chiaro, allora!»
I relatori non avevano ancora fatto sapere se avrebbero pernottato in città, e bisognava prenotare il bed & breakfast… Il clima era teso, i nervi a fior di pelle. Persino i più irenici e giocondi dei pacifisti rischiavano di avere una crisi isterica.
Anche il tempo ci si mise. Cambiamento climatico, già. Iniziò a piovere con una foga, con una cattiveria impensabile. Venivano giù scrosci come se qualcuno rovesciasse vasi stracolmi d’acqua, la pioggia scendeva di traverso ed entrava dalle porte e dalle finestre, fiumi e laghi si formavano in città e la gente ci affondava fino a mezza gamba. L’atrio del palazzo comunale, dove alla fine era stata allestita la mostra, era una galleria del vento, col grande portone d’ingresso che dava sulla piazza e sul lato opposto un altro portone che metteva in un cortile. Il giorno dell’inaugurazione si scatenò una bomba d’acqua che scoraggiò gran parte dei possibili partecipanti: gli altri, fradici, ascoltavano compunti le parole del sindaco e degli organizzatori: d’un tratto i roll up spinti dal vento si staccarono dal pavimento, uscirono dal portone e presero il volo come aquiloni e in breve tempo scomparvero nella stratosfera, mentre le foto inzuppate crollavano a terra una dopo l’altra come foglie d’autunno.
Il giorno del congresso la città era ormai completamente sommersa dalle acque: le scuole furono chiuse per allerta rossa e nemmeno le poche classi che si erano prenotate riuscirono a venire. Il pomeriggio andò ancora peggio: la biblioteca venne dichiarata inagibile, i relatori d’altra parte non erano arrivati perché i treni non viaggiavano da giorni, gli aeroporti erano chiusi e le strade allagate. Gli organizzatori, con le classiche pive nel sacco, noleggiarono una barca a remi e si rifugiarono a casa di uno di loro, che viveva in collina. Dalle finestre flagellate dalla pioggia contemplarono la valle sottostante, dove un lago immenso occupava lo spazio che un tempo aveva ospitato la loro città. Emergevano dall’acqua solo la cima del campanile del Duomo, la sommità della cupola della Madonna e il vertice acutissimo di uno di quegli orribili palazzoni di periferia risalenti agli anni ’80 del Novecento. Avevano portato due cassette di birra e bevvero fino a stordirsi: dopodiché iniziarono a volare parole forti.
«Te l’avevo detto che non era cosa!»
«Certo, perché sei un maledetto gufo della malora!»
«E voi, allora? Ambiziosi, velleitari! Cosa credevate di fare, eh?»
«Meglio non provarci nemmeno, quindi?»
«Illusi!»
«Cialtroni!»
«Gradassi pieni di boria!»
«Grandissime teste di…»
«Pace! Pace, fratelli e sorelle, pace…»





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