Ariana Biancapelle si piazzò nel bel mezzo della palestra, il fischietto al collo e un pallone da basket sottobraccio. Era una donna alta e muscolosa, coi capelli biondi legati a coda, e indossava un’aderentissima tuta in microfibra e sneakers immacolate. Ventuno adolescenti, ragazze e ragazzi della 1° B, schierati davanti a lei, la osservavano in un misto di timore e ammirazione. Lei, da parte sua, li scrutava con gli occhi socchiusi: eccoli, i suoi nuovi alunni, masse informi da sgrossare e plasmare nel corso di un durissimo anno scolastico. Li soppesò uno per uno, mentre faceva l’appello e quelli, al sentire il proprio nome, facevano un passo avanti. Quattordici anni e la più grande varietà del mondo: tre ragazze già donne, una piccina che pareva la loro figlia, una grassona che immaginava già sudare e sbuffare fin dagli esercizi di riscaldamento. Sedici maschi, i suoi preferiti, ma il materiale veramente buono scarseggiava: quattro, cinque bei giovanotti, alti, ben fatti, ma gli altri! Chi grasso, chi mingherlino, chi dinoccolato, asimmetrico, gobbo; tre con gli occhiali, due albanesi, riconoscibilissimi dal viso piatto e gli zigomi pronunciati, un marocchino riccioluto, un senegalese dai capelli crespi. Non certo la classe ideale. Del resto, da quando avevano istituito le classi miste anche in educazione fisica, da quando persino i disabili erano ammessi alle lezioni di educazione fisica, da quando c’era stata poi quest’ondata che non si fermava di arabi e slavi, di cinesi, di neri, di buone classi non se ne vedeva più neanche l’ombra.

Finito di fare l’appello, rivolse ai nuovi studenti il suo classico discorso di inizio anno: l’accoglienza a modo suo, vista la fissa della nuova preside, una cicciottella di mezza età che ne avrebbe avuto un gran bisogno anche lei di qualche ora di sana ginnastica, sulla necessità di “accogliere”, “includere”, “integrare” e via di questo passo, con quel buonismo d’accatto che a lei faceva venire il mal di stomaco.

«Non accetto entrate in ritardo, assenze strategiche e meno che mai giustificazioni. Chi ha necessità di saltare la lezione deve mostrarmi un certificato medico. E guai a chi indugia negli spogliatoi o al bar dopo la lezione!»

Una selva di mani si alzò.

«La nostra aula è lontana dalla palestra, e la professoressa di mate ci trattiene sempre qualche minuto dopo che è suonata la campanella… come facciamo ad arrivare in orario?»

«La prof delle medie ci dava una giustificazione al mese…»

«E se siamo indisposte? Io per esempio a volte ho dei crampi molto forti.»

Ariana si portò il fischietto alla bocca e soffiò vigorosamente.

«Quel che ho detto ho detto. Non ammetto repliche. E ora marsch! In cerchio, corsa leggera… su quelle ginocchia! Testa alta! Hop, hop!»

Erano passati appena due mesi dalla lezione introduttiva di educazione fisica e la 1° B si riunì in assemblea.

«Ragazzi», disse Alessia Paolucci, la rappresentante di classe. «Il bilancio non è dei più rosei. A parte italiano, dove sarete d’accordo che il prof è una pasta, abbiamo problemi con matematica, chimica e inglese, ma la questione più grave, a mio parere, è quella di educazione fisica. A oggi abbiamo: due caviglie slogate, un braccio rotto, uno svenimento in piscina…»

«E i voti? La maggior parte di noi è insufficiente!»

«Figurati, per quel che conta l’insufficienza di ginnastica…»

«Fa media, cretino. E poi i miei non vogliono neanche un 5 in pagella.»

«Per non parlare degli insulti…»

«Mi chiama cicciona…», si lamentò Pamela Ciampi.

«Sì, ma tu sei cicciona!», commentò Daniele Bellini, e il coro dei maschi più prestanti scoppiò in una risata.

«Basta! Non vi vergognate?», li rimproverò la rappresentante. «Siete peggio di lei…»

«E allora io cosa devo dire? Che mi chiama moretto, cioccolatino?»

«Prende in giro persino Gianni. Non è vero?»

«Dice che sono scemo, ma io non sono scemo, ho solo un lieve ritardo», confermò Gianni Venturi con voce strascicata.

«Che si fa, allora?»

«Andiamo a parlare con la preside!»

«Chi ci va?»

«Ci va Alessia! È la rappresentante.»

«Sì, però non da sola.»

«Vengo io con te», disse Riccardo Melosi, uno dei più fighi della classe.

«Non voglio te», gli rispose Alessia. «Verrà Gianni.»

«Io? Ma io…»

«Hai un lieve ritardo, lo so. Non ti preoccupare, andrà benissimo.»

La preside accolse i due rappresentanti con un ampio sorriso. Ascoltò le loro rimostranze, poi sospirò:

«La professoressa Biancapelle è un po’ ruvida, lo so. Ma non è una cattiva persona, se qualche volta è dura lo fa per il vostro bene. Vi vuole belli, sani, robusti. Purtroppo è costretta a tollerare la presenza di alcuni elementi, diciamo così, un po’ scadenti, lei che vi vorrebbe impeccabili, purissimi. È per il troppo amore alla sana gioventù italiana che a volte esagera un po’. Del resto la scuola deve includere tutti, non è così? Comunque non temere, Alessia, le parlerò io. Ma dimmi», aggiunse, parafrasando inconsapevolmente il grande Manzoni, «perché ti sei portata dietro quel… quel figliuolo?»

Qualche giorno dopo la professoressa Ariana Biancapelle fu convocata dalla preside. «Sarà per quei rompicoglioni della 1° B», pensò tra sé e sé: alcuni scolari particolarmente zelanti le avevano infatti riferito qualcosa a proposito dell’assemblea di classe. «Sta’ a vedere che una purissima Ariana quale sono di nome e di fatto non può neanche fare una battuta su tutti i negretti e i minorati che le rifilano in classe!»

Entrò spavalda in presidenza ma lì la aspettava una sorpresa. La dirigente era in piedi, affiancata da quattro carabinieri in alta uniforme, due per lato. Teneva in mano un foglio e portava sul naso gli occhiali da lettura.

«Venga avanti, professoressa», le disse, con una voce del tutto priva dell’abituale cordialità. Non la invitò a sedere, ma dopo essersi schiarita la voce annunciò che avrebbe dato lettura del comunicato che le era appena giunto da parte del Governatore della Nuova Repubblica, sua Eccellenza Il Puro tra i Puri.

«Ai sensi dell’articolo 1748 della legge numero 64456 dell’anno Sesto della Nuova Repubblica si delibera l’espulsione della professoressa Biancapelle Ariana da tutte le scuole e istituti della Repubblica, e le si infligge la pena di anni dodici di carcere duro per aver commesso i seguenti reati: aver mentito sulla propria purezza razziale, omettendo di dichiarare la presenza di sangue non ariano nella misura di un sessantaquattresimo; aver usurpato, grazie a tale menzogna, il ruolo di insegnante di educazione fisica che ha svolto proditoriamente e con indegnità; di essersi fregiata, senza averne il diritto di un nome e di un cognome dei quali non è evidentemente degna.»

«Come? Ma è assurdo, inverosimile! Ma io…», tentò inutilmente di ribattere Ariana. In quel momento due carabinieri le si accostarono e prendendola per le braccia la scortarono fuori dalla presidenza, mentre gli altri due chiudevano la ritirata. Mentre la facevano salire sul furgono cellulare che l’avrebbe portata via, Ariana Biancapelle poté vedere, affacciati alle finestre di tutte le aule che davano sulla facciata, i visi olivastri e neri dei ragazzi africani, gli occhi a mandorla dei piccoli cinesi, le facce stralunate dei disabili e su tutti il volto severo di Alessia Paolucci, rappresentante di classe.

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