Ho da poco assistito al Piccolo Teatro Grassi di Milano al dramma del 1982 “Il costruttore Solness” capolavoro non molto rappresentato della maturità di Ibsen.
Narra la storia di un uomo potente, un gran costruttore di case, (interpretato da un impareggiabile Umberto Orsini)
arrivato all’apice della carriera. Tuttavia è tormentato dal senso di
colpa per un episodio all’origine della sua fortuna sociale,
professionale ed economica, ma anche dell’infelicità sua e della moglie:
un incendio da cui è derivata la morte dei due figli e la conseguente
malattia della moglie – un prezzo altissimo che ha pagato alla propria
ambizione creativa.
L’uomo detiene un grande potere che non vuole cedere a nessuno, anzi
tarpa le ali a chi collabora con lui, negando ai giovani qualsiasi
possibilità di emergere, poiché vive nel terrore che possano
soppiantarlo, come aveva fatto lui in gioventù quando aveva raggiunto il
successo con l’inganno.
Vorrebbe fermare l’inesorabile scorrere degli anni e avere una nuova
occasione di felicità, che si presenta nell’arrivo della giovane Hilde
che irrompe nella sua vita e gli chiede di tener fede a un impegno preso
dieci anni prima con lei bambina. È infatti tornata per rivendicare il
suo regno di principessa e quel castello in aria che il grande
costruttore le aveva un giorno promesso.
Quell’occasione era stata l’unica volta in cui Solness, che soffre di
vertigini, era salito in cima a una torre appena costruita per porre sul
tetto una corona di fiori.
Solness non rammenta, ma Hilde sembra offrirgli una possibilità di
felicità e di riscatto e lo accompagnerà, amandolo, fino al bordo del
precipizio quando lo spingerà al di là dei suoi limiti facendolo
fatalmente salire sull’ultima sua costruzione per portarvi in cima,
quasi come un pegno di una loro vita futura, la corona di fiori.
Il tutto si svolge in un ambiente plumbeo, quasi un enorme carcere
dalle altissime pareti cenerine, mosse a vista da personaggi grigi come
l’atmosfera che respirano, solo per ricreare altri spazi oppressivi.





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