Solo di due cose si scantava Alberto. Una era il secchio che lo zio Totò portava a spasso ogni giorno nel cestino della bicicletta, nell’ora del dopopranzo. Lo sentiva arrivare prima di vederlo spuntare, annunciato dalla melodia di scriocchiolii e cigolii che ne accompagnavano la pedalata. Gli aveva detto, il vecchio Totò, che dentro al secchio trasportava l’acqua dell’abisso, nera come la notte e profonda come la morte. “Io ci sono stato” gli ripeteva “e ci ho visto pure quella bellissima fimmina di tua madre.” Alberto non ci credeva che c’era stato veramente, però quell’acqua era così scura e piena di segreti, meglio scappare quando si sentiva la musica arruginita dello zio Totò dal fondo della strada, e non pensarci più.
L’altra cosa che lo faceva cacare sotto erano le femmine. A queste era quasi impossibile sfuggire, non avevano ferraglia che ne annunciasse l’arrivo, erano tante e troppo grandi, impossibili da sconfiggere.
Alberto si sentiva tranquillo quel giorno. Aveva trovato un modo intelligentissimo per muoversi dentro le vie strette e luminose del borgo senza patire il terrore allo svoltare di ogni curva. Si era infilato l’impermeabile al contrario, abbottonandolo sulla schiena, poi si era ficcato un cappello in testa e gli occhiali da sole sulla nuca, e aveva cominciato a camminare all’indietro. Era perfetto e furbissimo! Nessuno lo avrebbe riconosciuto nè disturbato, un grand’uomo così elegante, forse un forestiero, è meglio portargli rispetto che non sai mai chi può essere. Inchinarsi, salutare e proseguire. Che poi chi l’ha detto che bisogna camminare sempre andando avanti? Si può anche andare nell’altra direzione, a volte si cammina così tanto e non si avanza di un passo.
Con questa convinzione nell’animo, Alberto si avvicinava all’imbocco delle scale dorate che portavano alla balconata. Lì, come corvi pronti a lanciarsi sulla carne cruda, stavano i pescatori, la pelle bruna, gli occhi scintillanti e famelici. Era il periodo dell’anno in cui le picciotte in età da marito andavano a passeggio sulla banchina, si fermavano a fare finta di guardare il mare, ma lo sapevano che i masculi stavano affacciati di sopra, a fare il guarda-guarda. Pure loro facevano finta di guardare il mare, e riempivano le orecchie di Alberto di cose proibite.
– Bedda, bellissima! Tu! tu! Con il vestito rosso! A fuoco mi stai facendo andare! –
– Guarda che boccuccia di rosa che c’abbiamo qua! Come la vorrei piantare quella rosa, tutta la innaffierei!-
E risate, e pacche sulle spalle ruvide. Braccia che indicavano e disegnavano forme nell’aria che non c’era più bisogno di immaginare. Alberto capì che la sua idea lo aveva salvato dall’orrore, ma non lo aveva protetto dal disgusto. Bastava continuare a salire in silenzio senza voltarsi verso il mare e tutto sarebbe finito in poco tempo. All’angolo della piazzetta che faceva da sfondo alla balconata c’era la sua casa, con le finestre alte e serrate, le mura bianche bianchissime, le porte chiuse a qualsiasi forma di aiuto. Certo però, che cosa doveva sopportare per sfuggire ai pericoli. Cosa gli pareva a quello lì che urlava tenendosi la pancia, si è capito come la vuole piantare la rosa quello lì. A una donna dire una cosa del genere: è blasfemia! Loro non le sentono nemmeno queste zozzerie, le perdonano come fanno le madonne e vanno oltre. Oltre l’azzurro del mare e del cielo, dove c’è l’azzurro dei loro occhi che tutti gli azzurri del mondo raccoglie. E il marrone è la terra che dà i frutti e il verde la forza del germoglio che dalla terra marrone si solleva e con l’acqua azzurra sviluppa la vita.
A rivolgere la mente a questi pensieri Alberto sentì un imbarazzo crescergli nel sottopancia dove imbarazzo prima non c’era, e si vergognò di essere caduto nello stesso tranello che lo aveva costretto a uscire di casa quella mattina per raggiungere la farmacia di Pino.
Pino, che aveva studiato e sapeva tutte le cose della farmacia, gli aveva detto che quella timidezza che sentiva e che si portava dietro un gonfiore improvviso non era grave e si poteva guarire facile facile strofinandoci sopra un poco di limone, per disinfettare. Ma Alberto lo aveva capito che quella era una punizione che le madonne gli mandavano ogni volta che lui pensava ai loro occhi azzurri, verdi e marroni. Così si era spinto fino alla bottega di Marì e, fissando il pavimento, aveva chiesto un chilo di limoni verdelli, perché se comprava quelli gialli tutti capivano per che cosa gli servivano e questo non era giusto. Adesso, sentendo crescere la sua sensibilità, voleva arrivare a casa in fretta e strofinare via tutti i cattivi pensieri.
Ma giunto che fu sulla piazza, uno strano silenzio scese su tutti gli uomini affacciati, come la brezza del mare alla mattina presto quando zittisce le ombre della notte. Nessuno faceva una mossa. Tutti trattenevano il respiro.
Alberto capì che era stato scoperto. Lo avevano riconosciuto. Avevano visto il sacchetto dei limoni. Tutti sapevano.
Tic tac, tic tac, tic tac, il suo andare segnava l’andare del tempo. Il vento esisteva solo per passarle tra i capelli. Mai stelle più luminose erano apparse nei cieli se non i suoi occhi, lunghe le gambe, sembravano autostrade per la felicità, e la bocca, ah la bocca! Si apriva e si chiudeva per mostrare e nascondere i tesori che custodiva, e il sorriso era una lama di pugnale nel fianco all’improvviso. Tutte le preghiere degli uomini del mondo erano state esaudite con la sua venuta e il suo tocco era guaritore dai mali. La madonna delle madonne era scesa in terra. Lei lo avrebbe guarito per sempre, lo avrebbe liberato da quella rete che gli intrappolava il cuore da quando sua madre gli aveva detto “Ti salvo, Albertuzzo mio, da questa vita di povertà. Tu sei nato delicato e non te la meriti un’esistenza come la mia!” Le sue ultime parole prima di buttarsi nel mare trascinandolo con sé. Ma non lo sapeva la mamma che se ti tuffi così forte nel mare ci affondi? E infatti lei era andata a fondo, e lo teneva abbracciato stretto, ma lui aveva voluto respirare e scalciando si era liberato del dolce abbraccio materno per riaffiorare al dolore.
Ora questa seconda madre gli stava davanti e lo fissava nella sua vera faccia. Gli occhi di lei sembravano cercare in tutta la figura di Alberto una spiegazione a quella immagine confusa di uomo travestito da un altro uomo. “Dove te ne vai così tutto coperto che è estate?” gli disse come se non fosse un angelo ma una fimmina come le altre, e sorrise.
Finalmente era arrivata. Alberto fu certo che quello era il giorno. Lo sapeva che sua mamma non lo aveva abbandonato, che sarebbe tornata per svelargli i segreti degli abissi, e lui non avrebbe più avuto paura di niente.
Alberto si lanciò contro la ragazza a braccia spalancate. I limoni rotolarono sul pavimento della piazza e giù per le scale. La madonna fatta carne schivò quel carico di impermeabile e passione fuggendo verso il gruppo di uomini che osservavano stupefatti la scena. “Guardate, Alberto non si spaventa più delle femmine! Vai Alberto!” e Alberto andava. Continuava a lanciarsi verso la donna che implorava aiuto percorrendo la piazza tra le risa di tutti, fuorché le sue e quelle di Alberto.
Quando si accorsero di quello che stava accadendo, era già successo.
Il fiatone lo faceva suonare come un caprone in accoppiamento, tutto coperto com’era sotto il sole caldo di luglio, le braccia alzate e le mani tese verso il cielo lo facevano sembrare gigantesco, la bocca deformata da un sorriso, gli occhi completamente bianchi. “Mmmaammmaa” urlò mentre si tuffava verso la salvezza. Ma la salvezza lo schivó ancora e l’impermeabile volò al di là della balconata, dentro il mare, fin giù nell’abisso, leggero e lucido come non era mai stato.
Ora pure lui era un segreto del mare.
[ BlogLink : Francesca Di Rosa ]





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