By Gianluca Mantoani

Di una visita al Museo d’Arte Orientale di Torino, in una calda domenica d’Aprile, oltre alle numerose meraviglie di legni e ceramiche, di metalli e di stoffe proposte lungo uno schema espositivo forse un po’ datato, mi resterà impressa la mostra temporanea “Tradu/izioni d’Eurasia” (qui ben descritta) costruita sul presupposto intrigante di mettere in luce colori, profumi, materiali e immagini che hanno fatto da ponte fra mondo europeo e mondi asiatici, attraverso la plurimillenaria mediazione delle civiltà affacciate sul Mediterraneo. La raffinata porcellana cinese del XVIII secolo decorata con l’immagine di un Bacco ovviamente e innegabilmente ubriaco è forse l’immagine che riassume meglio questa idea di ponti culturali gettati attraverso quel che Fernand Braudel chiamava la “lunga durata”, ovvero processi e connessioni storiche di lungo periodo.

Più ancora di questa bella chiave espositiva, però, mi resteranno impressi i due veri e propri regali che chiudono la mostra; il primo è un cortometraggio dell’artista libanese Ali Cherri, intitolato: The Watchman (2023). Vediamo il sergente Bulut, una giovane e attonita sentinella, versione attualizzata del sottotenente Giovanni Drogo di Dino Buzzati che invece della Fortezza Bastiani si trova a presidiare, di notte, un posto di guardia sul confine tra l’auto-proclamata Repubblica Turca di Cipro e la Repubblica Greca di Cipro. Un posto di guardia sul vuoto; anzi, una guardia sopra uno spazio quasi del tutto svuotato di vita e di senso dal perdurare del conflitto, ma anche dalla sua assenza; uno spazio disumanizzato proprio dall’incombere di un conflitto che sebbene assente sul terreno agita i sogni, i pensieri e l’immaginazione della sentinella e anche dei pochi abitanti rimasti fra le case semi diroccate.
C’è un momento chiave del cortometraggio, in cui nella notte il sergente Bulut fronteggia un esercito che avanza nella pianura davanti a lui. E’ l’esercito dei fantasmi dei soldati dimenticati che gli chiedono di seguirli. Attaccato alla vita al punto di seppellire le spoglie di un passero morto scontrandosi contro il posto di guardia, Bulut rifiuta ma è costretto in quel confronto a valutare l’inutilità della guerra e guardare in faccia l’oblio che essa produce. Proprio questo passaggio rimanda potentemente al “Deserto dei Tartari”, allo sguardo attonito del tenente fresco di nomina davanti alla vastità del deserto oltre la fortezza e all’inutilità di fronteggiare una frontiera oltre la quale non succede mai nulla:
“…Dove mai Drogo aveva già visto quel mondo? C’era forse vissuto in sogno o l’aveva costruito leggendo qualche antica fiaba? Gli pareva di riconoscerle, le basse rupi in rovina, la valle tortuosa senza piante né verde, quei precipizi a sghembo e infine quel triangolo di desolata pianura che le rocce davanti non riuscivano a nascondere. Echi profondissimi dell’animo suo si erano ridestati e lui non li sapeva capire. Ora Drogo mirava il mondo del settentrione, la landa disabitata attraverso la quale gli uomini, si diceva, mai erano passati. Mai di là erano giunti nemici, mai si era combattuto, mai era successo niente.”

Il secondo regalo invece è l’installazione Shimmering Mirage (Black), del 2018, di Anila Quayyum Agha, artista pakistana-americana che con la sua scatola sospesa, finemente traforata e illuminata dall’interno, trasforma l’ambiente che la accoglie e riesce a trasportare altrove il visitatore, col suo intreccio di luci e ombre geometriche e articolate. Altrove, in luogo immaginario e indefinito un po’ cripta e un po’ moschea, un po’ Alhambra e un po’ Aghia Sophia, un po’ Fortezza di Alamut e Palazzo del Veglio della Montagna e degli Assassini. Un posto di confine, un luogo sospeso e svuotato di conflitti, dove si intuisce che esiste spazio per dare senso alle cose, ma quel senso esige una scelta e quella scelta e tutta da fare. Un luogo sospeso dentro lo sguardo di chi si trova a passare, fra luce e ombra, un chiaroscuro della nostra immaginazione. Un luogo di luminosa, nera e scintillante meraviglia.

(Shimmering Mirage (Black), del 2018, di Anila Quayyum Agha,)

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