
Nessun uomo ricorderà, nessun nome resterà
Quando nel 1976 Francis Ford Coppola, forte dei successi raccolti con quella che, nella storia del cinema, è stata l’unica saga a conferire una profondità epico-tragica al fenomeno d’identificazione tra interprete e protagonista, decideva di investire i ricavati dei primi due capitoli de “Il Padrino” tratto dall’opera di Mario Puzo, nella produzione di “Apocalypse now”, film ricavato a sua volta da un romanzo breve di Joseph Conrad, si preparava in realtà a puntare la cinepresa come un bisturi sul proprio recondito “Cuore di Tenebra”.
Anche Giorgio Aurispa, l’inquieto esteta protagonista de “Il Trionfo della Morte”, romanzo che Gabriele D’Annunzio portò a termine nel 1894 nel Convento Michetti, a pochi chilometri da quell’eremo che ne costituisce la quinta mitografica, celava sotto i paludamenti dell’artificio letterario la macerazione interiore di cui lo scrittore era preda in quel periodo, tormentato dai creditori, un matrimonio fallito e una sregolata vita amorosa . Tanto la storia del capitano Willard quanto quella di Aurispa si dipana tra gli approdi di una traversata acherontica intrapresa lungo “la corrente di quel fiume” che trascina entrambi “verso il mistero di un mondo sconosciuto”. Per Willard “la grandezza” che fluttua sulle acque di cui scrive Conrad, è la forza brutale e mesmerica promanata dal tempio del colonello Kurtz, pulsante estuario cieco in cui la follia oracolare del pluridecorato ufficiale del Vietnam è figlia del rimpianto della perduta innocenza. Per Coppola è quella di un’interminabile produzione multimilionaria perseguitata dall’isteria metereologica e dal caos psichico della troupe e degli attori che lo spinge sull’orlo del suicidio. Per Aurispa è il fascino annichilente di un ideale superomistico che, messo alla prova dalla discesa nel ventre oscuro di un Abruzzo paganeggiante e brulicante di superstizioni, s’infrange contro la nausea esistenziale derivante dall’incapacità di elevarsi al di sopra dei vincoli terreni, fino a trovare nel suicidio con l’amata Nemica Ippolita, l’estremo suggello alla perdita di ogni legame con l’Umano.


Quasi per caso nella primavera del 2013 tornai sul promontorio della contrada di San Fino di San Vito Chietino, a pochi passi dall’eremo abitato nell’estate del 1889 da D’Annunzio e Barbarella. La vertigine provata guardando giù dal precipizio che nel romanzo funge da patibolo naturale a Giorgio ed Ippolita, si convertiva stavolta in uno smarrimento più violento e durevole che si estendeva alla percezione di un’identità mistica del luogo scaturita dalla collisione tra la biografia dannunziana, la sua sublimazione letteraria, il mio vissuto empatico istigato dalle suggestioni poetiche del ricordo, e il portato drammatico della contemporaneità, condensato nell’immagine della Costa dei Trabocchi minacciata dalla recrudescenza dello sfruttamento petrolifero.
Benché evochi un topos a cui spesso gli action movies ricorrono per dare una chiusa al cardiopalma al classico inseguimento d’auto, nel mio cortometraggio “NoMen” l’idea dell’uomo immemore imprigionato nella macchina in bilico su un dirupo, lo stesso del romanzo dannunziano, diventa invece la più teatrale trasposizione simbolica di uno stato di frenetica paralisi di un’umanità schizoide che si condanna all’autoinumazione tecnologica, sottraendosi al dialogo con i propri simili e con la natura. Quegli stessi dispositivi che dovrebbero interfacciarlo con la realtà esterna, ossia un tablet o uno smartphone (come accadeva nel ben più claustrofobico e inutilmente lungo “Buried” di Rodrigo Cortès), gli rinfacciano al contrario la sua fallimentare pretesa di sfuggire con un semplice atto di volontà dalla bara metallica di quella vettura che, assurto nella vita dell’uomo “civilizzato” a primo e irrinunciabile strumento di emancipazione, nella sua scala di valori viene non di rado anteposta agli affetti umani. Incerto se assegnare l’attributo di realtà ai suoi incubi “interni” o a quelli “esterni” (semmai fosse lecito negare che i primi siano i riflessi dei secondi e viceversa) all’uomo che non ricorda il proprio nome ma riesce ancora ad usare un tablet, non resta che confrontarsi con i frammenti fotografici di una vita perduta, nonché con il video di un alter-ego partorito dalla sua fuga psicogena e sepolto dalle sue amnesie temporanee. In questa anti-conversazione che si sviluppa tra i tre doppelgänger della mente (Willard-Kurtz-Aurispa) nella divaricazione dello spazio e del tempo generata dalla riproducibilità digitale, il solo dato sensibile è un nome relativo all’ultimo legame affettivo del protagonista: sarà questa la “password” che consentirà l’accesso alla rete wifi della compagnia petrolifera Auri Spa, dissigillando le porte della macchina e quelle di una psiche ancor più ermetica?
Dagli aracnidi lignei protesi sul mare dei trabocchi, a quelli metallici e fiammeggianti delle piattaforme petrolifere, l’Orrore che incombe sul mare stuprato è ancora quello di un mondo di uomini senza uomini.
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