Il mattino dopo, alla stessa ora, presi posto sulla medesima panchina: era una giornata simile alla precedente ed ecco di nuovo spuntare in mezzo agli alberi la lieve figuretta, eccola avvicinarsi a passo svelto, eccola giungere davanti a me: io ero pronto, col mio più largo, più affabile sorriso, e lei nuovamente volse il viso verso di me e sorridendo con grazia mi salutò. Che dovevo fare, che dovevo pensare? Mi rallegrai con me stesso, esultai, mi commossi, mentre una folla di interrogativi iniziò a brulicare nella mia mente. Chi era la fanciulla e perché mi salutava? Forse, d’animo gentile, essa salutava ogni cosa intorno a sé, fiori e uccellini, e ogni persona: e così io, che casualmente mi ero trovato sul suo cammino, avevo potuto godere del suo saluto. Forse credeva di riconoscermi, mi confondeva con qualcun altro. Forse, più semplice ipotesi e più probabile, mi trovava simpatico, chissà, addirittura piacente. Per giorni e giorni mi appostai al solito punto: non sempre ella passava, a volte l’attendevo invano, ma quando il cuore non sperava più, eccola, l’inconfondibile macchiolina tra gli alberi, la figurina che venendo avanti assumeva contorni più precisi. È lei, sotto l’ombrello, avvolta in un piumone imbottito che pur infagottandola non nega grazia al suo passo, eccola accompagnata da un tiepido raggio di sole cui fa schermo con la mano, eccola emergere a un passo da me dal più fitto nebbione. E tutte le volte lo stesso sorriso, il saluto accennato col capo, il lieve mormorio delle labbra.

Le settimane si succedevano le une alle altre e Natale si avvicinava: alzarsi presto, venire al lavoro in quelle mattine fredde e buie era duro, ma io non me ne accorgevo nemmeno. Un solo pensiero ormai mi dominava, mi teneva giorno e notte: la ragazza, la ragazza che alle otto attraversava il parco, che passava a un metro da me, che mi salutava. Non vedevo altro, non avevo altro, la mia vita era lì, in quell’accennare del capo, in quel dischiudersi delle labbra. Ora la vita che avevo condotto finora mi si rivelava in tutto il suo squallore: mia moglie, il suo corpo sfasciato, la sua stolida espressione bovina; i miei figli, quelle stupide, rozze creature, la mia casa, una tana indecorosa. Non riuscivo a sopportare più la vita cui mi ero assoggettato per anni, una vita di bestia da soma, senza uno scopo, senza uno spiraglio. Girovagavo a lungo dopo il lavoro, che consiste, oltre che nella pulizia mattutina, anche nella sorveglianza dei giardini pubblici, fino al pomeriggio inoltrato. Alla fine della giornata lavorativa, anziché tornarmene a casa, raggiungevo a piedi il centro: avevo preso l’abitudine di portarmi dietro del vestiario di ricambio che indossavo al termine del mio orario, e così rimesso a nuovo, me ne andavo per le vie più eleganti, guardavo le vetrine, ammiravo le signore a passeggio, mi perdevo tra la folla e le insegne colorate dei negozi. In mente non avevo che lei, mi pareva di scorgerla a ogni passo, la indovinavo in ogni donna che vedevo. Era un’ossessione, un pensiero fisso, una passione: sì, mi ero innamorato della ragazza che alle otto attraversava i giardini, del suo passo armonioso, del sorriso aleggiante sul suo volto, della sua testolina castana che s’incurvava verso di me. E dentro di me si alternavano stati d’animo diversi e contrastanti. Ero amareggiato, deluso: perché il destino mi aveva messo davanti questa creatura proprio quando per me era impossibile averla, quando la mia vita volgeva al tramonto, i giochi erano stati fatti e da tempo esauriti, avevo moglie, figli già grandi e io stesso non ero più quello di un tempo? Il destino mi sputava in faccia, sghignazzava alle mie spalle, fingendo di offrirmi quel frutto delizioso quando io non avevo più denti sani per morderlo. Talvolta però prendevo coraggio, mi ringalluzzivo tutto: diciamolo pure, mi illudevo. Perché, mi domandavo, lei passa ogni mattina nel mio giardino, davanti alla mia panchina? Perché si volta a guardarmi, mi sorride, mi saluta? Cominciavo a pensare seriamente di incontrare la sua approvazione, il suo interesse, in una parola, di piacerle. E perché no? Ero sempre stato un bell’uomo, avevo avuto i miei successi, in passato. Molti occhi, gli occhi grandi e scuri delle nostre donne ma anche quelli nocciola o cerulei delle donne di qui, si erano posati su di me. È vero che ultimamente ero un po’ invecchiato, ma quante ragazze prediligono gli uomini maturi, e alla fine, non ero troppo severo con me stesso? Se le guance erano un po’ arrossate, le mani e le labbra un po’ gonfie, se i capelli erano ormai grigi, gli occhi non brillavano come un tempo di intelligenza e di furbizia, e le sopracciglia non erano ancora ugualmente folte? Così andavo dicendo tra me e me e di giorno in giorno mi facevo più sicuro, sentivo addirittura di trasformarmi fisicamente: i polmoni, riempiendosi di nuovo ossigeno, si dilatavano, la schiena si raddrizzava, le gambe mi parevano più forti e una nuova fierezza mi animava lo sguardo… sì, di giorno in giorno mi facevo più sicuro: non c’era altra spiegazione se non quella di una simpatia, di un affetto che la fanciulla provava per me. E pertanto mi chiedevo come avrei dovuto comportarmi. Attendere il suo passaggio ogni mattina, sorridere in risposta al suo amabile saluto con sempre maggiore cordialità, mettere nel mio sguardo tutta l’ammirazione, tutto l’amore, il desiderio… tutto questo non bastava più e non mi conduceva molto lontano. Sì, quella giovane donna io volevo averla per me, stringerla tra le braccia, farla mia: che importavano ormai quella povera vecchia di mia moglie, quell’invalido di mio padre, persino i miei figli mi parevano sbiadire al confronto. Ero perduto.

Era, intanto, venuto gennaio. Per molti giorni il cielo si era mantenuto sereno, il freddo era intenso: il sole, pallido, compariva solo per brevi ore, basso, all’orizzonte. Una sera infine la temperatura s’era un poco alzata e nel buio della notte piano piano aveva preso a cadere la neve. Al mattino, svegliatomi alla solita ora e visto l’inconsueto spettacolo alla luce dell’unico lampione che spande la sua luce proprio di fronte alla mia finestra, rientrai nel letto, giudicando inutile e probabilmente impossibile recarmi ai giardini pubblici. Ma non riuscivo a dormire, in preda a crucci indefinibili. Da alcuni giorni non avevo più visto la ragazza. Che fosse malata? Che avesse cambiato casa, lavoro, itinerari? Che fosse, per motivi a me sconosciuti, indispettita nei miei confronti? Infine mi alzai, mi avvicinai alla finestra e guardai fuori, dove cominciava pian piano ad albeggiare. La casa taceva, dormivano ancora tutti: erano gli ultimi giorni delle vacanze natalizie e i ragazzi avevano preso l’abitudine di indugiare nel letto, la mattina. Preso da un impulso incontrollabile afferrai i vestiti: mia moglie aprì un occhio, sbuffò, fece per mettersi a sedere, infine si girò su un fianco e si riaddormentò. Io, che avevo seguito i suoi movimenti col fiato sospeso, coi vestiti e le scarpe in mano, come un ladro, scesi dabbasso: mi vestii freneticamente, uscii in strada, inforcai il motorino e partii. Per timore di sbandare dovetti andare pianissimo: il rumore del motore quasi non si sentiva, il cielo era bianco grigio e prometteva ancora neve. Arrivai ai giardini che le otto erano passate da un pezzo. Prati, vialetti, alberi e cespugli, tutto era coperto di neve. Il silenzio era totale. Col cuore in gola raggiunsi la mia solita panchina, ne spolverai un pezzetto dalla neve che vi si era ammucchiata e mi sedetti. Mi tolsi i guanti: mentre soffiavo sulle dita intorpidite maledicevo me stesso e il demone che mi aveva fatto correre fin lì, quando era evidente che lei non sarebbe venuta: con quella neve, nessuno usciva di casa, se non per stretta necessità o, come me, per pura follia; inoltre da vari giorni lei non passava dai giardini, e per quale motivo proprio oggi avrebbe dovuto venirci. Ma ecco che improvvisamente i miei occhi scorsero un puntino in lontananza, solo una piccola macchiolina tra gli alberi, una minuscola figura che passo dopo passo si ingrandiva ai miei occhi. Infine la riconobbi, era lei, non potevo aspettare e mi mossi per venirle incontro. Lei pure mi riconobbe ed ebbi l’impressione che un lieve corrugare della fronte, un brevissimo serrarsi delle labbra tradissero un certo disappunto. Mi sentii avvilito: doveva essere in collera con me e ne ignoravo il motivo. Ma ero deciso a farmi perdonare, purché mi spiegasse in che cosa avevo mancato. In quel momento la fanciulla alzò gli occhi: l’espressione contrariata era scomparsa dal suo viso, tanto che credetti di essermela sognata, e con l’aria di chi ha preso una decisione mi si avvicinò, sorridendomi apertamente e guardandomi dritto negli occhi mi tese la mano. Il mio cuore ebbe un sobbalzo, tutti i miei sensi si misero in attesa, ero felice, e tuttavia mi pareva che qualcosa non andasse. Quell’espressione franca, quel sorriso aperto, quella mano tesa, avevano un che di troppo amichevole, non parevano affatto preludere alle civetterie e ai nascondimenti dell’amore. Dov’era finito il mistero di quel sorriso, di quel lieve accennare del capo, di quelle parole a malapena percepibili? Dov’erano i sogni che per mesi avevano scaldato il mio cuore?

«Buongiorno!», mi si rivolse con voce squillante. «Lei è il signor Bishara, non è vero? Sono la maestra di Omar, sua moglie mi conosce bene! È proprio un bravo bambino, Omar, intelligente, studioso! Vedrà che le darà molte soddisfazioni!»

E mentre io sentivo come una randellata calarmi sulla testa, affabile, gentilissima, la ragazza continuava a parlare: io la fissavo inebetito, uno stupido sorriso incollato sulla bocca. Automaticamente annuii, ripetei, tentennando il capo, le sue ultime parole: «bravo bambino… soddisfazioni… bella famiglia…», mentre con la rapidità di un lampo le cose si facevano chiare, perfettamente chiare e logiche: la maestra di Omar, ma certo, com’era possibile che non l’avessi riconosciuta. E perciò mi salutava! Sorridendo allegramente la ragazza mi strinse la mano: «Arrivederci signor Bishara, e tanti auguri!», mentre io ripetevo come un’eco: «…derci… uguri…»: poi la svelta figuretta si allontanò tra gli alberi, divenne un puntino lontano, scomparve. Inutilmente, nei giorni successivi, ne attesi il passaggio, ne spiai l’avvicinarsi: essa non attraversò mai più i giardini pubblici.

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