Di Gianluca Mantoani
Siamo ad aprile, un pomeriggio limpido, ancora freddo; c’è un sole molto alto, distante, che scalda a sufficienza l’aria ma non basta ancora per la terra e infatti, sotto la mia schiena, sento che questa terra è fredda, appena umida. L’erba è ancora corta, bagnata e penso improvvisamente che resteranno delle macchie sui pantaloni, penso che il mio peso schiacciando la stoffa sull’erba umida ne estrarrà geografie improvvisate di macchie verdi e marroni. Questo è strano, mi dico, di solito non penso alle macchie mentre si formano. Sorrido. Apro gli occhi e vedo ombre muoversi nello spazio di cielo che inquadro dalla mia posizione; le metto a fuoco, sono le foglie della Robinia piccole e ovali che si muovono piano nell’aria e intrecciano le loro ombre coprendo e scoprendo continuamente i miei occhi.
Mi giro sul fianco, Vicino a me una formica risale lo stelo di un tarassaco. Il mio pensiero torna alle macchie d’erba; non so perché non possa allontanarsene in questo momento. Mi guardo attorno; è un piccolo prato limitato al fondo da una fila di alberi. Sono arrivato qui, proprio qui, ma senza intenzione; ho lasciato l’auto, risalito per pochi passi una piccola strada sterrata e cercato con gli occhi un luogo fra l’ombra e la luce dove lasciar cadere il mio giubbotto e su di lui la mia schiena. Questo è il primo posto in cui mi sono fermato dopo essermene andato di casa. Provo ad allontanarmi dal pensiero delle macchie d’erba. Come sono arrivato in questo prato? Come si sceglie il primo posto in cui andare dopo essere usciti di casa? Voglio dire, non come si esce di casa per andare a lavorare al mattino o per andare a festeggiare un compleanno. Dico proprio quando ,di strappo, si risolve un conflitto e si esce per lasciare quella casa e tutto ciò che contiene: le luci del pomeriggio fra le tende, le luci di tutti i pomeriggi; i mobiletti del bagno, i libri sullo scaffale, in quell’ordine, su quello scaffale; il disordine nell’armadio, le ciabatte consumate, la ciotola del cane, il portamantelli occupato, la cappa della cucina.
Constato che non lo scegli, che non c’è un criterio e non c’è una misura. Non c’è o perlomeno io non lo conoscevo; ci sono – invece – le cose attorno che sono presenti e che restano attorno ovunque si vada: qui la camera dei ragazzi, là un calzino per terra; in cucina sul cuscino del divano l’impronta dov’era seduta lei quando poi si è alzata, è andata verso il frigorifero aprendolo in silenzio e nel silenzio ho visto la luce interna illuminare debolmente l’acqua dalla bottiglia e le bolle che risalivano la bottiglia mentre beveva. Il conflitto era, in quel momento, dentro quelle bolle, chiuso in quel silenzio. Ho messo in una borsa quello che riuscivo a pensare e non era molto: le mutande, le calze, due maglioni, le camicie del lavoro. Il cuscino; si ho messo nella borsa il cuscino e chiudendola ho pensato che a freddo, in un altro momento, non mi sarebbe mai venuto in mente di includere un cuscino nella lista di cose che si infilano nella valigia fatta all’improvviso per andarsene. Ma me ne stavo andando e quindi ho preso anche il cuscino.
Quando c’è silenzio, mentre si prende fiato e si beve alla bottiglia, i muri non dicono nulla, la trapunta resta silenziosa sul letto, tace la scarpiera e lo stesso fanno i libri di ricette nella cucina; le cose non intavolano conflitti e io mi allineo, di conseguenza; anche io non parlo. Me lo impedisce il timore di non farcela, me lo impedisce la fatica di portare a compimento lo strappo; me lo impedisce il silenzio. Mi spaventa andare via così, mentre i figli sono a scuola, con la necessità e la paura di andare e quelle onde contrarie e uguali di non riuscirci che si combattono la mia carne, in silenzio. Così si è chiusa la porta, dietro di me e ricordo che stavo sul pianerottolo, aspettavo l’ascensore, pensando che forse potevo anche scendere a piedi, per fare più in fretta. Invece no, l’ho atteso al piano e quando è arrivato l’ho aperto, sono entrato, ho richiuso la porta e premuto il pulsante , come ogni altra volta, le molte volte che sono uscito di casa per andare a lavorare o prendere le pizze. Sono sceso guardando verso l’alto, come spesso si fa in ascensore e infine l’ho richiuso con i gesti usati negli ultimi dieci anni. Non ci sono gesti nuovi per fare le solite cose; anche quando le cose, improvvisamente, prendono un senso nuovo.
Quindi ho proseguito, superando la cassetta della posta, ho sceso i tre gradini dell’androne e sono uscito in strada; ho guardato la macchina senza provare nulla; ho aperto la portiera, buttato la borsa sul sedile e mi sono messo al volante; ho acceso il quadro del motore; sono partito.
[ Immagine in evidenza : Robinia pseudoacacia di Amselchen ]





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