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Pierre-Jules Hetzel, il suo editore, glielo rifiutò. Se quel giovane di 35 anni, all’anagrafe Jules Verne, voleva vivere della sua scrittura e bissare l’inaspettato successo del romanzo d’esordio Cinque settimane in pallone allora il manoscritto non poteva essere pubblicato. Troppo pessimistico e futuristico, avrebbe scioccato il pubblico da rischiare di perderlo. E poi, chi mai avrebbe potuto credere a quelle disumane profezie nella Francia del 1863?

Gli suggerì di riporlo nel cassetto almeno per vent’anni e di tornare al suo stile originario continuando a consegnargli storie in cui divulgare la scienza e la geografia vestendole con avventure iperboliche. La proposta contrattuale era chiara: due romanzi ogni 365 giorni per 20.000 franchi annuali. Sei come un juke box. E così il nuovo astro della letteratura francese fece per tutta la vita. Salvo dimenticarsi di quella storia rifiutata che aveva intitolato Parigi nel ventesimo secolo. Non sarebbero passati vent’anni prima di vedere la luce, ma centotrentuno.

Nel 1989 un suo pronipote trovò il plico di fogli in una vecchissima cassaforte. Hachette lo pubblicò nel 1994 (in Italia arrivò un anno dopo) e le cronache dicono che nelle prime settimane se ne bruciarono centinaia di migliaia di copie nelle librerie dell’intera Grande Nation. Ma che cosa conteneva il misterioso testo da bloccare un vecchio marpione dell’editoria come Hetzel? 

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Parigi, 1960. Michel Jéròme Dufrénoy è un giovane poeta e ha il sogno di una carriera composta di versi e strofe. Ma il nuovo mondo non è cucito attorno ai suoi desideri. La contemporaneità ha come unici totem la scienza, la tecnica e l’economia. I ponti d’oro sono per ingegneri, scienziati ed esperti di finanza. La capitale vive di grattacieli in vetro, calcolatori che dialogano con altre macchine a ogni latitudine, automobili che si alimentano a gas. Il ragazzo è un capatosta, ma perseveranza e orgoglio sono una piuma contro una bomba atomica. La società ha solo occhi per l’industrializzazione senza limiti. La metropolitana sopraelevata è un dato di fatto, la rete per trasmettere telegraficamente i dati il pane quotidiano e poi si viaggia su treni alimentati da aria compressa. Il futuro si è uncinato a un presente che si evolve restando se stesso.

Gli abitanti non si stupiscono più di nulla. E non sono pochi quelli che utilizzano gli strumenti della modernità senza interrogarsi dove li stia portando la corsa allo sviluppo. Un poeta? E che cosa se ne fa la società di un poeta? Letteratura e filosofia sono spinte ai margini. Il mondo dell’arte e del pensiero sono riprogrammati. Nelle librerie e biblioteche non si tengono i romanzi di Hugo e Balzac perché l’uomo moderno non li cerca, cinema e teatro sono trasformati in una catena di montaggio statale sotto l’egida del Grande Emporio Drammatico in cui lavorano dipendenti stipendiati che scrivono spettacoli che rispettino i modelli standard di vuoto divertimento. Bandita la tragedia, la cui disperazione è sovversiva.

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Va da sé che anche la critica è diventata espressione inutile. Dei giornalisti non c’è più bisogno visto che nessuno più legge i giornali e la politica si è liberata dei partiti con una trovata semplice: le cariche si trasmettono in via ereditaria da padre in figlio. Le donne stanno per essere sostituite da macchine ad aria compressa per la prosecuzione della specie umana, le malattie spariscono e se non se ne inventano di nuove dei medici non ci sarà più bisogno. Idem per gli avvocati, dato che le cause sono rimpiazzate da patteggiamenti tra le parti, più rapidi ed economici.

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Così vedeva il futuro Jules Verne nel 1863. Una gemma nascosta Parigi nel ventesimo secolo, al tempo scambiato per apocalisse senza una goccia di credibilità e oggi mai citato insieme ai consueti Dick, Orwell e Huxley. Una società immersa nella tecnica che ha chiuso i conti con l’umanesimo in ogni sua declinazione. La tecnologia, dice Verne, mira solo a funzionare perché l’uomo deve essere messo in grado di produrre e la produzione procede se si rende impotente tutto ciò che possa intristire, angosciare, far dissentire. Una visione che permise a Verne di anticipare in letteratura il mostro di un’organizzazione sociale che non ha bisogno di leggi costrittive o di militari nelle strade. Perché la dittatura liquida prosperi è sufficiente che la tecnica funzioni e vedrete che negli uomini sparirà il morbo dell’emotività.

Fantascienza tirata all’estremo nel 1863. Ma il tempo è stato ancora una volta galantuomo. Forse oggi, A.D. 2023, possiamo parlare di realismo. E magari domani toglieremo il forse.


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