Il Premio Campiello 2024 è stato assegnato a Alma, di Federica Manzon. Manzon era l’unica donna tra i cinque finalisti, quindi sono fiera del fatto che il premio sia andato a lei, anche se, personalmente, trovo che il suo romanzo non sia il migliore della cinquina. E anche se mi viene il sospetto che premiare le scrittrici, nelle ultime edizioni sia dello Strega che del Campiello, sia una sorta di risarcimento tardivo per quanto sono state ignorate e accantonate in passato, se non addirittura una sorta di “furbata” nel nome del politically correct.
Dei cinque libri finalisti, (cui va aggiunto anche il Campiello Opera Prima che è andato a Fiammetta Palpati per La casa delle orfane bianche, da me recensito mesi fa su Masticadores), io ne ho letti quattro, La casa del mago di Emanuele Trevi, Locus desperatus di Michele Mari, Il fuoco che ti porti dentro, di Antonio Franchini, e per l’appunto Alma. Invece non credo che leggerò Dilaga ovunque, perché il pur bravo Vanni Santoni non è proprio nelle mie corde.
Se fosse stato per me, io il premio l’avrei dato a La casa del mago. Emanuele Trevi è uno scrittore che ho scoperto da non molti anni, ma che mi incanta con ogni suo libro. Racconta di persone che ha conosciuto, solitamente di intellettuali che ha frequentato, e racconta anche di sé, con una levità, una grazia impareggiabili. In questo suo ultimo libro Trevi parla di suo padre, Mario, psicanalista molto noto a Roma, del suo rapporto con lui e con la casa dove lui viveva ed esercitava la professione e dove, dopo la sua morte, il figlio si trasferisce. Mario Trevi è ritratto in modo ammirevole: un uomo particolare, svagato e strano, capace di assentarsi e di trasferirsi in un mondo tutto suo, a proposito del quale in famiglia risuona spesso il solito ritornello: «Lo sai com’è fatto.» Emanuele e suo padre hanno un rapporto al tempo stesso molto forte e molto labile, fatto di silenzi, di gite improbabili, di piccoli e grandi incidenti, raccontati con fine umorismo. Ho trovato La casa del mago un libro delizioso.
Mi è piaciuto molto anche Locus desperatus, di Michele Mari. Mari è uno dei più grandi scrittori italiani viventi, ha una potenza immaginativa e una qualità linguistica straordinarie e tocca temi di grande rilievo. Questo romanzo è imperniato sulle cose, oggetti, libri, suppellettili, cui il protagonista è estremamente legato e che teme di dover perdere a causa di uno strano avviso, una croce che nota, un giorno, sullo stipite della sua porta. È un avviso di sfratto, dovrà lasciare la sua casa ma anche tutte le sue cose, dovrà scambiare la sua vita con un’altra che gli verrà assegnata. Ecco che l’uomo, allora, si appresta a difendere il suo mondo con tutte le sue forze e con l’aiuto di strane creature che lo assistono… Locus desperatus sorprende per l’inventiva, per la fantasia scatenata, per le invenzioni linguistiche, ma anche perché tocca un tasto doloroso: quanto sono importanti per noi le cose di cui abbiamo costellato la nostra esistenza, che abbiamo accumulato solo per definire tramite esse la nostra identità?
Il fuoco che ti porti dentro, di Antonio Franchini, è, come del resto La casa del mago, un memoir, un genere che va molto di moda ultimamente: l’autore parla della propria madre, e di conseguenza della propria famiglia e della propria vita. Ciò che rende originale quest’opera è il ritratto negativo che Franchini propone della madre Angela, una donna che descrive come astiosa, volgare, logorroica, lunatica e chi più ne ha più ne metta. Il testo, insieme commovente ed esilarante, è molto bello e scritto magnificamente, ricorda un po’ Starnone per via della napoletanità accentuata che lo pervade.
Alma, l’opera vincitrice, è nel complesso un buon romanzo. È incentrato sulla figura della protagonista, una donna di 53 anni che per ricevere una misteriosa eredità paterna torna a Trieste, sua città natale, da cui mancava da molti anni. Nel suo breve soggiorno che culminerà nell’incontro con Vili, un ragazzo con cui ha diviso gli anni dell’infanzia e della prima adolescenza, e col quale i rapporti nell’età adulta saranno improntati a una forte, lacerante passione ma anche a incomprensioni e disaccordi che porteranno a una rottura tra i due, Alma è percorsa da ricordi che afferiscono all’infanzia, all’adolescenza, agli anni in cui le guerre balcaniche l’hanno fortemente turbata e hanno impresso una serie di cambiamenti ai suoi rapporti con Vili. Molto introspettivo, quindi, il romanzo si anima nel narrare le vicende della “parte di là”, la Jugoslavia cui la triestina Alma si sente legata non solo dalla vicinanza fisica, ma soprattutto dal fatto che sia suo padre che Vili sono slavi. Sono molto ben riusciti, a mio parere, questi due personaggi, tormentati, sradicati, passionali, ed è interessante la diversa percezione che Alma, suo padre e Vili hanno della questione balcanica. Meno riuscita, secondo me, la figura della madre, una donna italiana innamoratissima del marito vagabondo e incostante, sempre in attesa di un suo arrivo, e anche il suo impegno nella “città dei matti” appare poco più che un espediente narrativo.
La lettura è tuttavia rallentata da un eccesso di riflessioni da parte della protagonista e da una certa tendenza alla ripetizione che, seppure in certi momenti funzionale, risulta a volte ridondante. Infine, due parole sulla conclusione: senza svelare nulla, dirò che l’ho trovata posticcia, una sorta di “lieto fine” che sembra obbedire a criteri di marketing piuttosto che a una vera esigenza narrativa

Una replica a “Considerazioni sul Premio Campiello 2024 by Marisa Salabelle”

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