Quel giorno in cui decisi di non uccidermi non era tanto diverso dagli altri. Forse solo un po’ più assurdo. La solita routine: la voce di mia madre che mi rimbombava in testa come se avessi una cassa rotta nel cervello, e mio padre che entrava e usciva da casa senza neanche guardarmi, come se fossi un mobile. Ma la cosa più assurda era che mi ero svegliato senza nessuna ragione per alzarmi. Nessuna. Sarei potuto restare lì, sdraiato, a fissare il soffitto per ore. Forse lo avevo anche fatto.

Avevo diciassette anni, ma mi sentivo come uno che ne aveva vissuti mille. Era tutto così pesante, capisci? E non perché avessi grandi drammi da raccontare. No, non è che i miei fossero alcolizzati o violenti o robe del genere. Semplicemente non c’erano. Come me. Non c’ero. Mi muovevo per inerzia, come una di quelle ombre che vedi camminare per strada e ti chiedi se sono vive davvero. E la scuola? Dio, non farmici pensare. Quei corridoi erano come una specie di tunnel claustrofobico, con le luci al neon che sfarfallavano e la gente che ti lanciava occhiate, come se avessi una scritta sulla faccia: “Ecco un perdente.”

La lama era sul tavolo, vicino al letto. Non era la prima volta che la guardavo. Ci avevo già pensato altre volte, magari non seriamente, ma era lì. Ero sempre lì anche io, seduto sul letto, il silenzio che mi ronzava nelle orecchie come un vuoto assordante. La lama mi attirava, come se fosse l’unica cosa reale in tutta la stanza. Avevo pure fatto un paio di graffi sul braccio qualche tempo prima, giusto per sentire qualcosa. Non è che facesse granché male. Era una fitta, e poi il niente di nuovo.

E mentre ero lì, a farmi le solite domande del cazzo su cosa ci stavo a fare, arriva un messaggio sul telefono. Mi aveva quasi spaventato il suono, così improvviso. Non che mi aspettassi qualcuno, ovviamente. Nessuno si prendeva la briga di scrivermi, se non per chiedermi i compiti o altre cazzate. Ma quel messaggio non era uno di quelli. Era Paolo, quel tipo che non parlava mai con nessuno, se ne stava sempre per conto suo, con i vestiti sempre sgualciti e i capelli che pareva non se li lavasse mai.

“Stai bene?” mi aveva scritto.

Cosa cazzo voleva dire “stai bene”? Nessuno mi chiedeva mai come stavo. Nemmeno mia madre, nemmeno mio padre. Eppure Paolo, quello stronzo silenzioso, lo faceva. Mi faceva incazzare, capisci? Doveva starsene zitto, farsi i fatti suoi come tutti gli altri. Ma invece no. Mi chiedeva se stavo bene, proprio mentre io stavo fissando quella lama.

“Perché mi scrivi?” avevo risposto, un po’ per dispetto, un po’ per curiosità. Volevo vedere cosa avrebbe detto.

“Dai, sembri uno incazzato col mondo.”

Aveva ragione. Incazzato era la parola giusta. Non triste, non depresso. Solo incazzato. Con tutto e tutti. Con me stesso soprattutto, perché non riuscivo a sentire niente di diverso.

“E allora?”

E poi era arrivato quel messaggio che mi aveva fatto rimanere lì, immobile.

“Pure io.”

Era una frase così semplice, così dannatamente onesta. Nessuno me l’aveva mai detto in quel modo. Nessuno aveva mai avuto il coraggio di ammettere che stava male come me, senza filtri, senza quei discorsi del cazzo che fanno gli adulti per farti sentire meglio. Era uno che, come me, vedeva solo nero. Era uno che, come me, si chiedeva ogni giorno perché si svegliava ancora. Eppure lo faceva. Era ancora lì.

Non sapevo cosa rispondere. Avevo ancora la lama vicino alla mano, ma all’improvviso mi era sembrata ridicola. Cioè, se pure lui, Paolo il fantasma, stava in quella merda e riusciva a tirare avanti, forse… forse potevo farlo anch’io. Almeno per un altro giorno.

Alla fine avevo scritto una cosa stupida, tipo: “Che fai oggi?”

Non so perché l’avevo fatto. Non è che me ne fregasse qualcosa di cosa facesse. Era solo una domanda, una di quelle che fai quando non vuoi più stare da solo ma non sai come dirlo.

“Niente. Vuoi venire da me?”

C’era qualcosa in quel “niente” che mi aveva fatto venire voglia di andare. Forse era proprio perché non prometteva niente. Non mi avrebbe salvato, non mi avrebbe fatto sentire meglio. Ma era qualcosa. Così ci sono andato. Casa sua era come immaginavo: piccola, silenziosa, un po’ sporca. Abbiamo ascoltato musica che non conoscevo e fumato sigarette che sapevano di merda. Non ci siamo detti chissà cosa. Ma ci siamo guardati, e in quei silenzi c’era tutto.

Quella notte, per la prima volta da mesi, mi sono addormentato senza pensare alla lama.

E no, non è che tutto sia diventato fantastico da allora. Non è così che funziona. Ma il giorno dopo, e quello dopo ancora, non mi sono ucciso. E Paolo era ancora lì.


[ BlogLink : Volevo Essere un’Astronauta ]

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