Regia di Guillame Senez – 98 Min.

Sulle note di Oh baby degli LCD Soundsystem in extra-diegesi, utili a creare fin da subito un ponte confidenziale tra regia e spettatore sulle teste dei personaggi, inizia la giornata di Olivier, quando è buio e la sua famiglia dorme ancora. La camera lo tiene in primo piano, unico elemento a fuoco, come ipnotizzata dal fascino fragile della vita e dell’essere vivente. Pure, un contesto esiste, e si rivela congerie abnorme di minutaglia, che sormonta e inghiotte: è la popolazione sterminata di oggetti prodotti dall’industria 4.0 e smistata ai cittadini-consumatori dall’azienda in cui Olivier lavora, che non cela nel nome un riferimento netto ad Amazon.
Dura la vita degli uomini lavoratori – una guerra, piena di battaglie: contro le manovre subdole dei dirigenti, contro i licenziamenti di donne incinte, contro una società divisa nei propri individualismi, contro la legge impersonale e rigida, contro la psicologia che si fa mistificazione, che fa dell’operaio un elfo zelante e sorridente; contro chi si fa boia per la paga profumata. E il sangue scorre: non c’è coraggio, non c’è modo, non c’è forza per impedirlo, per fermarlo. Sembra il 1908, e invece è il 2018. L’operaio, affiancato dai robot, è preda del lavoro a cottimo: frenetico, rapsodico, come suggerisce la recitazione veloce, nevrotica, che brucia il tempo. La tecnologia, chimerica soluzione agli affanni, è solo un nuovo pretesto di oppressione, di ingiustizia sociale: si cambia un lavoratore che non produce più, come si cambia un computer obsoleto (o uno zaino sdrucito, se si hanno i soldi), e se qualcosa va storto, pazienza!
Tutti sono importanti, nessuno è indispensabile: è questa la legge della macroeconomia. Ma cosa succede se a rompersi è l’equilibrio psichico di un essere vivente, di una madre? Quale colpevolezza ha la fragilità? Quale condanna per la resa? È coraggio, è viltà? Non è colpa di nessuno, dice Betty al fratello Olivier, che è come dire che la colpa sia di tutti, ovunque. La microeconomia della famiglia e degli affetti necessita di figure indispensabili, e per questo importanti. È la speranza contro la sua nemesi: l’abbandono. Ma non è solo una questione di affetti: sul piano materiale, odioso ma interessante, la microeconomia si fa macroeconomia: a quanto ammonta il lavoro non pagato di una donna, di una madre, di una nonna, ogni giorno? Quanto incide sul PIL? È l’ennesima traccia sottile che scorre sotterranea in un film denso.

È questo il lavoro – un mero servizio? È questo il lavoratore – una mera funzione? E che posto ha l’arte in questo mondo? È solo un gioco, una stravaganza? Se Betty è un’attrice che cerca di fare del teatro un modo di intendere la vita in termini di felicità, Olivier è un operaio che agisce come una marionetta nel macabro teatro della fabbrica. È un corto circuito di forte intensità, e gli elettroni che lo attraversano sono gli esseri umani, dotati di sentimenti: rabbia e fragilità, gioia e angoscia. E follia, il sentimento che lega il consumatore al suo prodotto, con cui tenta di riempire il vuoto della sua testa; la sensazione che si manifesta quando l’uomo è in un ambiente che non gli appartiene, cioè la folla, appunto[1].
Che fare? Se lo chiede il sindacato, e la risposta è sempre quella: lottare. Anche se la forza non basta, anche se la pazienza non è mai abbastanza, anche se lo stomaco non regge più. Dare tutto, fino alla fine, nell’unione che fa la forza contro un mondo in dissoluzione. Che fare? Se lo chiedono anche i bambini: loro, quando il mondo si fa insostenibile, lo forzano con la fantasia che non ha limiti, silenziosa e talvolta pure pragmatica. Che fare? Non ci resta che parlare, dialogare, costruire un confronto, credere nella democrazia, che farà schifo ma che è ancora il sistema migliore che abbiamo per scontentare meno persone possibile, pare. O almeno, pare a Senez.
[1] Cfr. A. Huxley, Il mondo nuovo.
[ BlogLink : Altiero Righetti ]





Lascia un commento