Più che immaginare, qui si tratta propriamente di “re-immaginare. perché questo è, in estrema sintesi, il lavoro di Morehshin Allahyari – artista kurdo-iraniana (dal 2007 insediata a New York) – che utilizza le tecnologie digitali, il video, la scultura e la stampa 3D come mezzi per “re-immaginare” o, come dice propriamente lei: “ri-figurare” il patrimonio visuale e la cultura popolare di ambito mediorientale e nordafricano, allo scopo di generare e diffondere “narrazioni” che contrastino le disparità di genere e l’influenza del “colonialismo tecnologico occidentale”.
Re-immaginare per Allahyari significa, in particolare, recuperare elementi del patrimonio immaginale tradizionale della cultura islamica e mediorientale; elementi che arrivano alla contemporaneità caratterizzati da una pesante influenza ideologica di carattere colonialista e patriarcale, ma recuperarli per decodificare e “smontare” questi processi e quindi riproiettare queste immagini verso il futuro in forma di narrazioni e patrimoni visivi liberati e decolonizzati.
Cosa tutto questo significhi, in pratica, si capisce meglio entrando nel concreto della sua produzione artistica. Quella che segue è quindi la traduzione (magari un po’ “libera“) delle schede sul progetto “She Who Sees The Unknown“, presenti sul sito dell’artista; traduzione ovviamente migliorabile e aperta a correzioni e commenti, che sono sempre i benvenuti.
She Who Sees The Unknown
è un progetto di ricerca di lungo periodo, iniziato nell’ottobre del 2016 come parte della mia residency art program a Eyebeam, New York. In She Who Sees The Unknown uso la modellizzazione, la scansione e la stampa 3D, insieme allo storytelling, allo scopo di ri-creare figure femminili mostruose e sessualmente indefinite, di tradizione mediorientale, utilizzando le tradizioni e i miti ad esse associati allo scopo di esplorare e mettere in luce i catastrofici danni culturali causati dal colonialismo, dal patriarcato e dal degrado ambientale nel contesto del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale.
Re-Figuring
Uno dei concetti principali che ho coniato e sviluppato a partire dal 2016, lavorando a questo progetto, è quello del ri-figurare , inteso come una pratica femminista e una forma di attivismo. Ri-figurare a mio modo di vedere ha a che fare allo stesso tempo con i concetti di conservare e di attivare, in riferimento al patrimonio tradizionale di immagini della cultura popolare islamica in Medioriente e Nord Africa. Ma è anche un gesto di recupero del passato. Come possiamo reimmaginare un altro tipo di presente e anche di futuro re-immaginando il passato – specialmente quella parte del passato che è stata dimenticata o travisata?
Le storie relative alle Jinn (che si potrebbe tradurre con “geni”, ma è una parola che rischia di nasconderci la complessità di queste creature immaginali, dunque meglio mantenere la traslitterazione inglese dall’arabo), rappresentano figure femminili mostruose ma anche ricche di potere; tuttavia nel corso del tempo il loro potere è stato rappresentato sempre più in una luce negativa oppure non è stato preso altrettanto sul serio quanto quello dei numerosi supereroi maschili che popolano la cultura popolare tanto mediorientale quanto occidentale.
Mediante il ricorso alla “mostruosità” di queste figure io cerco di dare i natali a nuovi esseri e creature che siano capaci di mettere in discussione e modificare le strutture di potere che governano le nostre realtà politiche e sociali e definiscono o comunque indirizzano anche i contenuti del mondo immaginale.
La ri-figurazione pertanto, è una pratica di attivismo e “fictio-femminismo” che riflette sugli effetti del colonialismo storico e digitale e su altre forme di oppressione e di degrado. In questo senso She Who Sees The Unknown è una pratica di ri-figurazione di figure dimenticate e anche di riposizionamento del significato delle loro storie.
Jinn (جن) as a Figure for Re-Figuring
Nella cultura e nell’insegnamento islamici i Jinn sono conosciuti come creature sovrannaturali. Secondo il Corano i Jinn sono dei mutaforma, fatti di un fuoco senza fumo, che vivono in un mondo parallelo a quello occupato dall’umanità. Jinn, esseri umani e angeli sono le tre popolazioni senzienti create da Allah ma, diversamente dagli angeli – che non hanno la possibilità di scelta fra obbedienza e disobbedienza – i Jinn dispongono del libero arbitrio, come gli esseri umani. Nella tradizione iraniana, in particolare, i Jinn sono temuti e onorati.
La mia infanzia in Iran è stata riempita da antiche narrazioni mitiche, tutte comprendenti una varietà di esseri eccezionali e soprannaturali. Le storie della buonanotte che da piccola mi raccontava spesso la nonna riguardavano le sue memorie relative ad incontri con jinn, di solito nell’hammam del suo villaggio. Quando i jinn prendono possesso di un essere umano essi ne garantiscono una sorta di completa “apertura”, un nuovo tipo di “portale” per così dire, di possibilità garantita all’accesso di forze e istanze dall’esterno dell’individuo, un mutamento radicale rispetto a come normalmente il soggetto si sperimenta e si identifica. Proprio questo è ciò che rende i Jinn, ai miei occhi, dei candidati perfetti per un processo di ri-figurazione.
Quando pensiamo alle tecnologie, ai futuri potenziali e a nuovi mondi, è forse tempo di andare oltre il concetto di “cyborg” definito dalla filosofa Donna Haraway, per provare ad estendere la nostra immaginazione verso un nuovo patrimonio di figure non hanno a che fare con le strutture occidentai/bianche della conoscenza. Se Haraway, per superare le tradizionali classificazioni binarie di genere e le distinzioni umano/animale e umano/macchina, affermava di essere “una cyborg piuttosto che una divinità materna , io affermo invece di essere un jinn piuttosto che una cyborg.

Diversi frutti di questo fecondo progetto di ricerca immaginale si possono trovare sul sito dell’artista:
https://shewhoseestheunknown.com/about/https://morehshin.com/artist-information/
https://mackenzie.art/exhibition/morehshin-allahyari/
Personalmente sono arrivato ad interessarmi dei Jinn seguendo il mio interesse verso le figure mediatrici fra dimensione umana/terrestre e dimensione divina/celeste (angeli, santi, demoni, djinn, fate e via discorrendo). Si tratta di entità intermedie, che non appartengono propriamente né al mondo materiale, né a quello divino, ma posseggono caratteristiche di entrambi; entità spirituali, “invisibili” come li chiama Tobie Nathan, che giocano un ruolo decisivo in molte culture nel definire in cosa consista effettivamente la specificità della natura umana ed è per questa ragione che, in ottica di costruzione poetica, mi interessano particolarmente. Il patrimonio immaginale appartenente alla tradizione islamica e mediorientale è poi particolarmente affascinante perchè differente da quello della cultura occidentale del quale però condivide le radici e una consistente aria di famiglia. L’anno scorso proprio seguendo questa linea di ricerca avevo scritto una poesia centrata sulla figura di una potente jinniya nordafricana, Aisha Qandisha, immaginando che con i flussi migratori, le persone in transito disseminino nei contesti urbani europei anche i loro “invisibili”, i quali devono poi – anche loro – adattarsi al nuovo contesto.: Qandisha.






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