Elisa entrò come sempre, con una strana lentezza che aveva preso piede da un po’. Non sembrava più quella ragazza che avevo conosciuto, quella che sorrideva per niente, che sembrava sorridere con una facilità che non mi era mai sembrata completamente autentica. Ora, invece, stava lì, ferma, quasi invisibile, come una pianta che è sopravvissuta alla mancanza di luce. Io cercavo di leggere il suo volto, ma ogni volta che provavo a guardarla direttamente, era come se il suo sguardo si staccasse dal mio. Poi c’era sempre quel piccolo movimento, quel respingere il contatto che mi faceva pensare che ci fosse una guerra interiore che non riuscivo a capire fino in fondo.
Sistemò la borsa sulla poltrona accanto a sé e si sedette. La stanza sembrava più piccola di quanto ricordassi. Forse era il cielo fuori, era più bianco del solito come se avesse preso a prestito il colore del latte che sta per andare a male, o forse era il fatto che Elisa stava lì, proprio lì, e il suo silenzio sembrava inghiottire l’intero spazio. La mia mente partì subito con il suo solito flusso disordinato di pensieri: avrei dovuto cercare di metterla più a suo agio? O forse sarebbe bastato che aspettassi e restassi in silenzio? Ma poi, chissà, forse avevo paura di scoprire che non c’era più nessuna risposta da trovare. Come se avessi preso una strada sbagliata, ma fosse troppo tardi per tornare indietro.
(Appunto a margine: La teoria di Freud sul transfert. Interessante, ma forse troppo ovvia per una seduta così… E poi, chi siamo noi, terapeuti? Quali fantasmi proiettiamo sui pazienti?)
“Sei stanca oggi, Elisa?” chiesi, senza pensarci troppo, ma cercando di sondare il terreno. Sapevo che la sua vita, fuori di qui, non sarebbe mai stata una passeggiata.
“Non più del solito,” rispose lei, ma senza sforzo. Era come se avesse imparato a ripetere quella frase come una risposta automatica. Una volta, se non ricordo male, mi aveva raccontato che, da piccola, la sua mamma le diceva sempre che non doveva mai lamentarsi troppo. “Un po’ di sana fatica non ha mai ucciso nessuno”, le diceva. Era curioso come le parole che ci venivano dette da bambini potessero crescere al pari delle radici, perforando la terra della nostra coscienza fino a diventare leggi inespugnabili.
“Ti va di parlare di cosa è successo questa settimana?” continuai, cercando di sembrare più disinvolta di quanto mi sentissi. Era la domanda standard, ma, come spesso accade nelle sedute, l’efficacia di una domanda non dipende mai dalla sua semplicità. Elisa si guardò le mani, come se dovesse trovare il coraggio di alzare lo sguardo.
Per un istante, la sua voce non arrivò subito. Il silenzio si allungò, e io cominciai a sentire il peso del mio stesso respiro.
“Non è come pensi,” disse Elisa, quasi in un sussurro. Ma c’era qualcosa nel modo in cui aveva detto quelle parole che mi fece capire che stava per raccontarmi qualcosa che non avrebbe mai voluto dire.
Io cercai di non mostrare troppo interesse. Forse avevo imparato a nascondere le mie reazioni, ma il mio cuore batté più forte. Quante volte, durante questi mesi, avevo visto quella distorsione negli occhi di Elisa? La leggera disconnessione tra quello che sentivo fosse il suo corpo e il suo volto, la tensione nei suoi movimenti che la facevano sembrare, in modo inaspettato, più grande di quel che era.
“Cos’è che non è come penso?” chiesi, usando il tono più neutro che riuscivo a trovare.
(Appunto a margine: Scivolando nel territorio dell’interpretazione psicologica. Questa è una zona insidiosa, vero? Rispetto per la paziente, ma senza farsi sopraffare.)
“È che… mi fa paura parlare di lui,” rispose Elisa, mentre una piccola lacrima le sfiorava l’angolo dell’occhio. Lo sapevo, lo sentivo: si riferiva al suo ex, e non era una paura qualsiasi: lui aveva scavato dentro di lei un fossato profondo.
“A volte, mi sembra che non abbia mai smesso di parlarmi. O di non farmi parlare,” continuò, la voce spezzata. “Era come se mi stesse dando degli ordini ogni giorno, come se mi avesse messo in una scatola, e poi, quando provavo a uscirne, c’era sempre una ragione per cui non dovevo farlo.”
“Non sei stata in una scatola, Elisa,” dissi, cercando di impedire che le parole mi sfuggissero troppo velocemente. “Non sei stata, non sei mai stata. Non dovresti credere a quella voce.”
Sapevo che non era così semplice e lo sapevo perché una volta, a vent’anni, avevo vissuto anch’io qualcosa di simile. Un ragazzo che sembrava così perfetto all’inizio, con il suo sorriso sicuro e le parole gentili usate per farmi sentire speciale. Quando eravamo soli, quando non c’era nessuno a vedere, mi controllava. Ogni cosa che facevo era sotto il suo sguardo. E c’era quella strana e pervasiva convinzione che, se mi fosse andato bene, sarei stata sempre e solo abbastanza per lui. Però non lo ero mai, e non lo sarei mai stata, perché per lui era sempre un gioco di potere. Non ero mai sufficientemente giusta, io ero cieca e non avevo il coraggio di uscirne, perché la sua manipolazione mi aveva convinta che fosse la mia colpa e mia la responsabilità di diventare di lui degna.
Mi ricordo una volta al termine di un esame universitario. Avevamo litigato, e lui, in quel momento, mi aveva guardato con occhi che non avevano più niente di affettuoso e mi aveva detto che ero troppo sensibile, che avrei dovuto smetterla di reagire così. E la sua mano sulla mia spalla, la sua voce calma e dolce, mi facevano pensare che avessi davvero torto. Non avrei mai voluto che Elisa passasse attraverso quello che avevo vissuto.
(Appunto a margine: Non è ancora troppo tardi per dirle che ho visto tutto. Forse. Ma è davvero utile? O rischio solo di mescolare il mio dolore con il suo?)
“Ti capisco, Elisa,” dissi finalmente, mentre cercavo di concentrarmi, di restare nel qui e ora, di non lasciarmi invadere dal ricordo. “So cosa significa avere quella paura. Quella paura di non essere abbastanza, di sentire che ogni cosa che fai è sbagliata.”
Mi guardò per un momento. Il suo viso era teso, ma c’era una piccola fessura che si era aperta nei suoi occhi, come se avesse sentito una lontana risata che nasceva da un pensiero di libertà o da un’idea che forse le cose potevano essere diverse.
“Tu… come hai fatto ad uscirne?” chiese come se finalmente avesse trovato il coraggio di fare una domanda che aveva aspettato troppo a lungo.
(Appunto a margine: È il momento giusto? Non vorrei sembrare troppo… empatica? O forse è questo il momento che ho aspettato per essere davvero utile.)
Non fu facile rispondere. Non ci fu una risposta semplice, non una soluzione che avrebbe fatto sparire quella paura. Ma feci un passo indietro, e dissi semplicemente: “Ho cominciato a credere che, se avessi voluto salvarmi, non potevo più vivere nella paura di quello che avrei potuto perdere. Ho capito che ero io a dover fare il primo passo, anche se quel passo significava andare contro tutto quello che avevo imparato a credere.”
Elisa non disse niente, ma il suo respiro si fece più regolare, come se qualcosa, per la prima volta, si fosse finalmente sistemato dentro di lei.
E in quel momento, guardandola, capii che non c’era una risposta definitiva, e che forse non ci sarebbe mai stata; ma quel piccolo spiraglio di luce era tutto ciò che dovevo vedere per sapere che, almeno per oggi, stava iniziando a credere che potesse esserci una via d’uscita.
“Ma… davvero pensi che ce la farò?” chiese, finalmente, con voce fragile, ma non più rotta dal pianto. Non era una domanda di disperazione, ma di possibilità. Un inizio di speranza che, per quanto flebile, era più forte di quella paura che aveva definito ogni suo movimento fino a quel momento.
Sospirai, senza pensare troppo a come rispondere. Non ero sicura di come sarebbe andata, ma sapevo che c’era una differenza fondamentale tra il prima e il dopo. La differenza tra chi resta prigioniero di una paura che non può nominare, e chi inizia a riconoscerla per ciò che è, per poterla finalmente mettere in discussione.
“Non so se ce la farai”, risposi onestamente, “ma credo che, per la prima volta, tu stia cominciando a vedere che hai una scelta. E che non è una scelta che dipende da lui. Non dipende da nessuno, Elisa. Solo da te.”
C’era una crepa in quella risposta, lo sapevo. Non era un’imposizione di ottimismo, ma una possibilità concreta, una possibilità che Elisa avrebbe dovuto abbracciare da sola, passo dopo passo, giorno dopo giorno. Come chi impara a camminare di nuovo dopo una lunga ferita. Un passo incerto, un passo alla volta, ma un passo che non rimandava più a un passato in cui tutto sembrava sempre fuori portata.
Elisa si accigliò, poi annuì impercettibilmente. Un gesto che avrei potuto non vedere, se non avessi prestato attenzione. Ma in quel piccolo movimento c’era qualcosa che non avevo mai visto prima: non c’era più quella fame di risposte facili che l’aveva accompagnata per tutta la terapia. C’era una nuova consapevolezza, come se, dopo tanto tempo, stesse finalmente accettando che il cammino per uscire dalla scatola in cui era stata messa non sarebbe stato semplice, ma che forse era iniziato.
Non le dissi altro. Non ci fu bisogno di dirle che avrei voluto prenderla per mano e dirle che non sarebbe mai più stata sola. Non le dissi che avrei voluto fare la stessa cosa per me stessa, tanti anni fa, quando pensavo di non avere via d’uscita. Non le dissi che avevo paura che tutto questo fosse solo un altro momento passeggero, un’illusione, un sogno a occhi aperti.
“Vieni quando vuoi”, le dissi, mentre mi alzavo dalla poltrona e prendevo la mia borsa. “Noi ci vediamo la prossima settimana, se ti va.”
Elisa non rispose, ma si alzò e, prima di uscire dalla porta, mi guardò un’ultima volta. Non so cosa ci fosse nei suoi occhi in quel momento. Forse non era ancora nulla di definito. Forse solo un barlume di consapevolezza che sembrava attraversarla come una scossa lieve. Forse un seme che stava iniziando a germogliare.
E quando la porta si chiuse dietro di lei, mi ritrovai di nuovo sola nella stanza. Un silenzio che era più denso. Quella sensazione di non sapere se davvero Elisa avrebbe trovato la sua strada, o se sarebbe rimasta intrappolata per sempre nel suo dolore. Ma avevo capito qualcosa: non ero responsabile della sua guarigione. Non potevo controllare il suo percorso, né la sua libertà. Quel percorso era suo. E forse, proprio in questo, stava la vera speranza.
(Appunto a margine: È un cammino lungo, questo. Eppure, ogni passo, ogni volta che qualcuno inizia a credere che possa esserci una via d’uscita è come un piccolo miracolo. Mi chiedo se anche io riuscirò a credere, un giorno, che la strada verso la libertà è davvero possibile.)
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