A Quarticciolo c’è un teatro dove, un mercoledì sera festivo, le famiglie vanno a vedere uno spettacolo per bambini. Si spengono i riflettori e restano in scena tre coni di luce su un telo bianco dove vengono proiettate delle ombre. Grazie alla fisica e alla fantasia dei bambini, appaiono animali, case e oggetti lì dove non c’è niente. Ora siamo in Africa, poi in Asia, a bordo di una nave o in una camera da letto. Non ci siamo mossi da Roma, eppure siamo stati in tutto il mondo.
Gli abitanti di Quarticciolo amano la propria borgata, lo fanno sapere anche ai muri, dove scrivono: “Essere un comitato è prendersi cura della borgata”. Essere. Non avere. Le radici sono nel cuore, anche se sono difficili, anche se fanno male. Prendersene cura, e farlo insieme, è un atto di fiducia. Bisogna essere portati per fidarsi dei fiori che nasceranno da quelle radici.
A pochi metri dal teatro, c’è un ragazzo fermo al centro dell’incrocio stradale. Scruta i passanti e le macchine. Non fa altro almeno per un’ora. Attorno a lui, i bambini giocano, gli adulti parlano, i ragazzi passeggiano. La vita va avanti senza accorgersi della sua presenza. Qualcuno si interroga, qualcun altro lo ignora: non sta interferendo con le vite di nessuno, dopotutto.
Un paio di strade più avanti c’è un cortile dove si affaccia una casa con le finestre simili a quelle del Palazzo della Civiltà dell’Eur, il Colosseo Quadrato. Architettura fascista, quella del periodo in cui entrambi i quartieri nascono. Un quadrato perfetto rotto dalla luce che esce dagli archi sulla facciata. Questi squarci composti non riescono al illuminare tutta la notte.
In quel cortile la vita va avanti al cospetto di tanta geometria: le persone si parlano dalle finestre, si lanciano pacchetti di sigarette; qualcuno cammina svelto, abbottonato in se stesso e nel cappotto per ripararsi dal freddo della notte, anche se sono solo le sette. Ci sono quattro ragazzi che parlano tra di loro: una ha il cappello, l’altro i guanti, uno ha la bici, l’altra la macchinetta fotografica. Entra poca luce nell’obiettivo.
Nella strada di fronte ci sono anche tre uomini che rovistano tra cumuli di cartoni gettati a terra. Per loro c’è un problema più urgente del freddo, che non sembra scuoterli particolarmente nelle loro tute leggere, senza guanti, senza sciarpa, senza pile: stanno cercando affannosamente qualcosa. Spostano i cartoni, parlano frettolosamente, si guardano di sbieco. Uno di loro è in piedi, ha in mano una borsa: anche lui è rapido nei gesti, ancora di più nei pensieri. La strada ai loro piedi è ricoperta di un manto marroncino, la polvere da sparo dei botti di capodanno. Su questo tappeto polveroso, tutti i cartoni degli spari ti fanno chiedere inevitabilmente come mai non siano saltate in aria tutte le macchine e i cassonetti del viale.
Intanto un’auto occupa l’incrocio stradale controllato dal tipo fermo, accosta al marciapiede e lui si mette a parlare con l’autista. Il finestrino è aperto, l’uomo ha il busto nella macchina, ma il minimo rumore lo richiama alla strada.
Via Molfetta, via Trani, via Ugento, via Manfredonia, via Ostuni, via Castellaneta: a Quarticciolo si vede la Puglia in ogni via. E attorno, ci sono dei giganti: Palmiro Togliatti, Enzo Ferrari, Roberto Lepetit.
Quarticciolo è goloso: sul muro di una casa ci sono due cartelloni Algida. Puoi scegliere un gelato, ma non puoi comprarlo perché non c’è il bar. Le case sono tutte uguali: edilizia popolare, con un cortile interno, le pareti sporche. Questa qui, invece, è firmata Algida.
Quarticciolo è piccolo, ma il nome è lungo quanto la distanza da Porta Maggiore: quattro miglia attraverso via Prenestina. Piccolo, pieno di vita e di contraddizioni che lo rendono umano.
Nella notte è un immenso telo nero in cui la poca luce compone i profili della vita che c’è.
Intanto, la luce intermittente di un lampione squarcia il buio. Lungo il marciapiede illuminato non accade niente. La vita resta avvolta nell’ombra.



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[ Tutte le immagini dell’articolo : Quartocciolo, Roma. Fotografie di Giulia Zaccardelli ]





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