“Chez Rosalie” è stata la latteria di mia madre per più di vent’anni.
Serrande alquanto malandate avvisavano che ai quattro tavoli con piano di marmo consunto ci sarebbe stato posto solo per una ventina di clienti e che gli sgabelli in vimini sfilacciato con cuscini spaiati non sarebbero stati particolarmente comodi.

Mia madre era l’italiana Rosalia Tobia. Ai tempi dell’Impressionismo era giunta a Parigi come modesta cameriera della Principessa Ruspoli, ma stregata dalla ville lumière, non era più ripartita. Aveva usato la scorciatoia della sua procace bellezza per farsi strada nel mondo dell’arte, ed era divenuta la modella per le Veneri di porcellana dipinte da Alphonse Bouguereau. Dopo che l’ingiuria del tempo le aveva tolto il bene della giovinezza, aveva racimolato 45 franchi e aveva acquistato la sua latteria, al 3 di Rue Campagne Première.
Per due franchi un cliente affamato di avventura poteva gustare un piatto di lasagne fumanti o un gustoso risotto, bere un buon Chianti o un fresco Valpolicella, e fumare con soddisfazione una sigaretta, offerta dalla casa. E poteva ammirare alle pareti disegni e dipinti dei più famosi artisti del tempo, perché l’arte non era certo in difetto in quel ritrovo nel cuore malconcio e pulsante di Montparnasse.

Con la sua onesta attività mia madre mirava alla stabilità finanziaria, non certo alla ricchezza, tuttavia, in cuor suo, sono certa coltivasse l’orgoglio di aver ospitato nella sua latteria molti artisti oggi famosi ma che all’epoca erano illustri sconosciuti.
Le storie di pittori visionari e di poeti squattrinati che tentavano la fortuna erano le sue preferite ed erano anche quelle che mi raccontava durante la mia infanzia, ogni sera, prima di andare a dormire.
E se il suo sguardo si faceva elusivo quando le mie domande di bambina cercavano di scoprire chi fosse mio padre, al contrario le brillavano gli occhi mentre ricordava Renoir e le sue belle ninfe di sorgente, perse nei boschi di Fontainebleau, o Monet intento a dipingere il suo giardino di Giverny usando tutti i colori dell’arcobaleno. A mano a mano che crescevo, le storie cambiavano e si avvicendavano nuovi personaggi. Rosalia, che nel frattempo era diventata Rosalie, aveva le sue preferenze e mi diceva spesso, con un’intonazione malinconica, che ora l’arte era molto diversa da quella creata prima del Novecento.
Agli inizi del secolo nella saletta del nostro locale si sono accomodati Pablo Picasso, André Salmon, Max Jacob, Suzanne Valadon, Chagall e molti altri. E naturalmente Amedeo Modigliani.

L’italiano, da sobrio, era cortese come un damerino e collerico come uno scaricatore di porto, da ubriaco. Magnifico quando recitava a memoria Dante, facendo innamorare le sue nuove amiche di turno. Tutto il locale si zittiva ad ascoltarlo, anche se pochissimi capivano quei versi che assomigliavano a formule di una magia arcana. Mia madre ed io capivamo e sorridevamo. E quando aveva terminato, per prime applaudivamo. Modigliani faceva un inchino a braccia aperte, rimetteva il cappello e andava via, senza pagare il conto.
Era il cliente più ammirato e più discusso del locale. Di certo non passava inosservato.
I suoi disegni alle pareti testimoniavano in egual misura la sua originalità e la sua povertà.
Alcune sere, giudicando che fosse già ubriaco, mia madre si rifiutava di servirgli altro vino. Quella che sembrava una scortesia era, per Rosalie, un modo per preservarlo da sé stesso. Infuriava allora un litigio a suon di ingiurie in italiano, gli occhiali di mia madre volavano sopra le teste dei commensali e Modigliani, accecato dalla frustrazione, faceva esplodere il suo furore strappando quanti più disegni dalle pareti riusciva ad abbrancare. Le urla si placavano quando i pezzi di carta volati in aria lentamente ricadevano a terra, e i due avversari guardavano sconsolati quello scempio che era il segno della resa, ritagli di una bandiera bianca che riportava la calma e non proprio la pace. Con un leggero imbarazzo Rosalie raccoglieva i suoi occhiali e nel contempo l’artista le si avvicinava per accoglierla in un abbraccio che prometteva la riconciliazione.
Poi l’arte aveva il sopravvento sull’uomo. Modigliani prendeva un foglio bianco dalla sua cartella e iniziava a disegnare per risarcire la furia di poco prima.
Gli anni trascorrevano così, senza annoiarsi, da “Chez Rosalie”.

In qualche modo, con rocamboleschi espedienti eravamo sopravvissute alla Prima Guerra mondiale ed ora anche il nostro piccolo locale era parte integrante di quel grande miracolo che era la rinascita di Parigi nel 1918.
L’anno dei miei 18 anni.
Si percepiva un fermento nuovo nell’aria e tutti gli artisti che sentivo parlare tra un bicchiere di vino e una fetta di torta volevano essere parte di quel cambiamento.
Io aiutavo nella gestione del locale, uscivo raramente ed ero relegata tra la cucina e la mia stanza, perché mia madre mi teneva nascosta come un tesoro, tanto era il timore che anch’io percorressi i suoi passi. Non c’era pericolo, perché io ero diversa. A discapito della mia capigliatura rossa non ero così estroversa, sanguigna e passionale come mia madre da giovane. Mentre servivo ai tavoli, in modi più o meno garbati, molti pittori mi avevano chiesto di posare per loro, perché dicevano che la mia carnagione rosea e il viso ovale ricordavano le Madonne del Perugino, qualunque cosa questo paragone significasse.
Per il diciottesimo compleanno mia madre desiderava un regalo che giustificasse agli occhi del mondo il suo orgoglio. Così chiese al suo artista preferito di farmi un ritratto, ma alle sue condizioni, perché Rosalie non voleva correre rischi. Era ancora vivo nella memoria di molti l’eco dello scandalo dell’inverno precedente, quando Modigliani aveva esposto i suoi nudi nella galleria di Berthe Weill, in Rue Taitbout. Il giorno dell’inaugurazione la polizia aveva dovuto sgomberare gli assembramenti e placare i tafferugli che erano scoppiati davanti alle vetrine dove erano esposte quelle Veneri che promettevano ai passanti paradisi proibiti.
Rosalie non voleva correre il rischio che anche sua figlia finisse immortalata senza veli, o peggio, che divenisse una delle tante modelle e amanti di Modì. Almeno non voleva che questo accadesse prima di esser riuscita a farmi sposare un buon partito, un signore che mi facesse fare una vita più agiata della sua.
La delicata questione del pagamento del ritratto era stata presto risolta coniugando il pragmatismo di mia madre e l’estro dell’artista. Rosalie aveva dichiarato che il compenso per l’opera era stato in parte già versato in rate anticipate, da quando Modì aveva iniziato a frequentare la latteria, consumando pranzi e cene senza sborsare mai un franco. E se questo non fosse stato abbastanza, Rosalie aveva promesso che avrebbe continuato a ospitarlo nel suo locale ogni volta che il livornese si fosse trovato con le tasche vuote e con qualche disegno da appendere alle pareti. In pratica era un pagherò senza scadenza.

Il giorno stabilito ci recammo in Rue Joseph Bara, nell’appartamento del mercante Leopoldo Zborowski, che aveva messo a disposizione di Modigliani una camera e uno studio di posa. L’appartamento non era lussuoso, tuttavia era facile constatare che quella sistemazione fosse più pulita e confortevole delle topaie in cui solitamente vivono gli artisti. La moglie del mercante, Hanka, ci ha servito il caffè in salotto e poi siamo passati nello studio. Modigliani era affabile e gioviale, con la sua conversazione incantava tutti.
Forte della sua posizione, mia madre si è permessa di proferire consigli non richiesti. In salotto aveva visto un ritratto che le piaceva molto. Una ragazzina in piedi, con un bel vestitino azzurro e dagli occhi chiari come i miei. Poco importava a Rosalie che io non fossi più una fanciulla, mia madre avrebbe voluto vedermi immortalata come una bella bambina della buona borghesia. Modigliani, insolitamente calmo, in un momento di bonaria comprensione aveva ascoltato quel lungo discorso e poi, di soprassalto, l’aveva mandata al diavolo, inveendole contro. Nessuno poteva permettersi di dargli consigli su come creare un’opera, perché i suoi dipinti erano frutto solo della sua visione! Alterato, l’artista aveva preso mia madre per le spalle e l’aveva sospinta fuori dalla porta dello studio, e mentre richiudeva, ritrovando un po’ di calma, l’aveva rassicurata che, al termine della posa, mi avrebbe riaccompagnata alla latteria, e avrebbe fatto così per tutte le altre sedute successive.

“Del resto, devo ancora riscuotere parte del mio compenso…” aveva sogghignato.
La stanza era spoglia ma decorosa, un letto sfatto di fronte alla finestra, un comodino con una pianta verde che si confondeva con la carta da parati, un cavalletto al centro. Con l’aria impacciata mi sono seduta sul letto, e con le mani stropicciavo nervosamente l’orlo del mio vestito più bello, quello a righe verdi e bianche, con colletto di pizzo. Per assecondare mia madre avevo raccolto i capelli in uno chignon basso. Mentre il tempo trascorreva lento nell’imbarazzo di una cerimonia di cui non conoscevo il rituale, Modigliani, accanto al tavolo, aveva aperto la sua cartella di pelle scura e logora e aveva cominciato ad estrarre alcune fotografie di opere d’arte. Con tono estasiato mi parlava in italiano di artisti che io non conoscevo. La sua voce brillava di un’esaltazione mista a deferenza che ho ritrovato solo nelle parole degli innamorati. Mentre disponeva le foto sul tavolo come fossero state tarocchi da interrogare, mi elencava tutti i nomi di questi grandi maestri: Andrea Orcagna, Filippo Lippi, Andrea del Sarto, Duccio di Boninsegna e molti altri.
Finalmente ha estratto una foto che ho riconosciuto e ho bisbigliato:
«La Grande odalisca, di Ingres è uno dei grandi maestri francesi.»
Aver parlato mi aveva dato forza e così mi sono avvicinata al tavolo.
Modigliani guardava quel mosaico di foto con un’aria sognante. Mi sono lasciata cullare dal senso di magia che percepivo nell’aria mentre osservavo rapita la “Nascita di Venere” di Botticelli e la “Fornarina” di Raffaello. La dea dai lunghi capelli biondo ramati stregava per l’espressione dolce e la complice inclinazione del viso; l’amante di Raffaello, svestita di veli, aveva uno sguardo ammaliante e seduttivo che faceva trasparire il piacere del dominio esercitato sul proprio innamorato.
Modigliani si era allontanato per inquadrarmi con uno sguardo carico di lusinghe e poi mi ha lanciato la sua sfida:
«Bello questo vestito che ha scelto Rosalie. Ma tu… come vuoi essere ritratta?»
I miei occhi sono corsi sulle righe del vestito che al suono di quelle parole sembravano diventare solide e infinite come i binari del treno, e per liberarmi di quel peso insopportabile e diventare un’opera d’arte, ho deciso di spogliarmi.
Come le eroine della classicità, per darmi coraggio, ho sciolto alcune ciocche dello chignon. Mi sono girata di schiena e con qualche impaccio mi sono sfilata il vestito, e rimanendo con la mia semplice camiciola bianca di cotone mi sono seduta sul bordo del letto. Maliziosamente la spallina destra si era sfilata a lasciar scoperto un seno e l’altra era scesa sulla spalla sinistra.
Modigliani, compiaciuto, con la matita in mano, mi ha sorriso mentre si dirigeva al cavalletto senza distogliere lo sguardo.
Mi ha ritratta bella come la Venere del Botticelli e sensuale come la Fornarina di Raffaello.
Io che sono una semplice ragazza dai capelli rossi.
Io che resto la figlia di Rosalie, la lattaia di Modì.

[ SiteLink : Valentina Casarotto – Storie d’arte ]





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