Erranti si nasce.

Al mondo giungiamo, infatti, in una condizione che è movimento poiché traghettati e trapassati dal conforto del grembo materno alla confusione del là fuori.. in quel mondo che è un “già lì” ,nella migliore delle ipotesi, predisposto per noi.

Quel confusionario mondo, locus e teatro di tutte le umane passioni, rende inquieta la nostra presenza.

Nell’approfondimento odierno, sarà necessario seguire le linee associative del mio inconscio che, avviso, notoriamente ha qualità di non temporalità e logicità (l’inconscio freudiano è infatti alogico e atemporale, caratteristiche presenti -tra l’altro- anche nel sogno).

Durante un colloquio clinico la ragazza che mi parla, evidenzia una problematica ricorrente: le lacrime.

Sembra che indipendentemente dalla situazione che si trovi a vivere, la risposta sia sempre la stessa ovvero queste lacrime di cui vergognarsi.

“Le lacrime sono qualcosa di sporco e imbarazzante!”

Il pianto, per gli antichi Greci, non era indice di debolezza ma di autenticità di sentimenti. Questo ricordo ha per linee associative inconsce, riaperto i cassetti della memoria, facendomi ripensare alla vicenda di Penelope, Telemaco e Ulisse.

L’Odissea pone il lettore innanzi a un fatto quantomai reale: l’inquieto e l’errante sono caratteristica e oggetto dell’esistenza umana. La possibilità che è noi posta, quella della vita, assume il senso all’interno del suo contorno, nel momento in cui si comincia ad accettare la possibilità che l’inquietudine sia la strada maestra che dirige la nostra esistenza nonché depositaria di quella che potrebbe essere la “felicità”.

Nell’Odissea si affronta quel che oggi chiamiamo PTSD (IL disturbo da stress post traumatico) raccontando, al lettore, le vicende dei feriti della guerra di Troia così come il fulcro della storia resta la vicenda familiare di Ulisse, Penelope e Telemaco.

Il filo che tiene in scacco la psiche della triade è il pianto.

Ulisse piangerà quando con 20 anni in più nel corpo e nella mente, chiederà alla ninfa sempre giovane e soda Calipso, di far ritorno in patria. Calipso è sempre bella; il cibo è sempre presente, così come l’amore a cui i due si abbandonano non manca mai. Ulisse è più vecchio (sono 7 anni che è bloccato in un paradiso quotidiano) ed anche la sua Penelope che è a sua volta bloccata in casa, vittima dei temibili Proci (che a ben vedere sono un esercito di giovincelli belli e aitanti che se la contendono), è ormai più vecchia.

Perché -allora- Ulisse desidera abbandonare il paradiso per rischiare ancora? Perché Penelope non prende una decisione definitiva e attende ancora il ritorno di un marito molto probabilmente morto?

La storia in realtà non comincia con Ulisse ma proprio con Penelope ma -soprattutto- con un figlio che nemmeno ricorda il padre: Telemaco. E’ con il viaggio del giovane alla ricerca di un padre fantasma che si apre la storia.

La vicenda la conosciamo più o meno bene tutti.

Quando Ulisse fa ritorno a Itaca (sopravvissuto tra l’altro pure all’ira di Nettuno), non trova (dopo aver liberato la casa dai Proci, previo piccola strage) una donna accogliente.

Trova Penelope, abile tessitrice di trame e piccoli stratagemmi (se non inganni), pegno per seguire la sua libertà, stizzita e distante.

Libero è allora Ulisse, re dei mari, stratega pronto a sfidare le divinità, errante cercatore del proprio senso.

Libera è Penelope, donna che tiene bloccati per anni, in casa, giovani principi pronti a saccheggiarne la dote; ammaliatrice che riesce ad illudere un esercito di uomini di essere padroni in quella che non è casa loro. Stratega anch’ella maniante che tiene i corpi dei Proci mossi come pupi.

Libero si scopre Telemaco, figlio di una pesante eredità, orfano di un padre forse in vita o forse no.. Un figlio che al pari di Amleto deve metter toppe nella storia del padre (le sorti di Telemaco, al di là dell’Odissea parlano chiaro del ruolo che riveste il paterno).

La triade, come dicevo, è unita in realtà da un unico desiderio: risolvere i conflitti in sospeso.

Il figlio parte per cercare il padre; la moglie aspetta per chiarire; il marito rifiuta il paradiso per tornare a casa.

L’Odissea mostra chiaramente come il percorso errante dell’esistenza termina in un punto cruciale per l’umano: chiarire le cose in casa.

Dirsi la verità, raccontarsi, piangere pure.. essere inquieti ma dirsi .

Siamo tutti attori di una storia; personaggi di una intricata trama di relazioni.

Ed è a questo punto che la mia paziente interrompe il filo dei pensieri cui il mio inconscio si era dato, per farsi una grande risata.

Allora guardo questa diciassettenne e sorrido pure io.

E’ anima errante -come lo siamo tutti- che cerca di tessere la tela che meglio descrive la sua storia di vita.

La trama è ancora sottile ma è molto più resistente di quel che possa sembrare.

Come Penelope, R. non è vittima e cerca ogni giorno di applicare le sue scelte alle decisioni altrui.

Lacrime incluse.

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità

2 risposte a “Viaggiatori inquieti dell’esistenza by Giusy Di Maio”

  1. Grazie di cuore, Juan!

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