Nella notte tiepida di Roma cammino sul marciapiede resistendo alla tentazione di mettere le cuffiette per sentire la musica. Affianco a me passa un’auto che – gli amanti delle Alfa Romeo e gli intenditori in generale delle macchine mi perdoneranno – mi sembra una Giulia nera, invece è una BMW. Una Giulia nera come quella dove ho viaggiato per due anni e passa, praticamente. Una Giulia su una Giulia, esilarante!
Guardo dentro la macchina e c’è lo schermo acceso e mille altre lucine illuminano l’abitacolo e un calore immenso mi ha riscaldato il corpo. Ho provato un’enorme curiosità verso la strada che il navigatore segnava sullo schermo: dove sta andando quella macchina? Chi e cosa attende alla sua destinazione l’uomo che la guida? Torna a casa? È contento di dove sta andando? Che calore c’è adesso nell’auto?
Non so niente di quell’uomo che guidava, ma mi sono sentita un po’ a casa ad immaginarmi lì dentro, con quello schermo acceso, le mille lucine, il calore dell’auto e la strada di casa ben chiara davanti a me.
Succedeva ieri: ero nel letto e piangevo all’idea di non sapere. Cosa io stia facendo, dove stia andando, perché proprio qui e non altrove. E tanti altri interrogativi esistenziali che sono belli, così tanto belli che io mi ci perdo appresso. Afferro una minima angoscia, o un cenno di dubbio dentro di me, e me lo metto davanti agli occhi sottoforma di domanda alla quale devo necessariamente dare una risposta, altrimenti non vivo bene. Vivo con quel punto interrogativo di cui non avevo bisogno finché non l’ho creato e, dal momento in cui ce l’ho davanti agli occhi, diventa un po’ la mia ragione di vita.
Ma il punto non è la domanda, perché di per sè è legittima. Il punto è il modo in cui me la pongo: con la presunzione di chi già sa che la risposta sarà sbagliata; con l’arroganza di chi avrebbe preferito un’altra risposta; con la supponenza di chi pensa che la risposta giusta, io, non potrò averla mai. E infatti io la mia vita la interrogo spesso e non trovo mai una risposta abbastanza convincente e soddisfacente.
Non mi lascio spesso andare a questa mia vita, sentendomene un’inquilina fastidiosa, troppo esuberante, troppo scomoda. Mi sento in affitto nella mia vita, con la precarietà di chi ha un contratto a tempo indeterminato che però non lo soddisfa e sa che dovrà rimanere in affitto lì per sempre perché altrove non può permettersi niente.
Così mi sentivo ieri. Così mi sento quando interrogo la mia vita e non le do la possibilità di rispondermi, di prendere aria, di respirare. Quando la mando in apnea con le mie domande che non hanno mai davvero una risposta, e neanche la meritano, perché me le pongo per scansare la vita, per non gettarmici dentro ma per rimanere a scrutarla sulla soglia, con occhio giudicante, quasi a dire “tutto qui? Io saprei fare molto meglio, ma non è toccato a me vivere”.
A volte mi chiedo con quale presunzione osservo la mia vita pensando che debba essere migliore, che io debba essere di più. Con quale diritto giudico severamente le risposte alle domande che mi pongo, così severamente che alla fine il dubbio che mi resta appesantisce il mio passo e spesso mi blocca al cospetto di una verità: quella di non avere una risposta perché non la voglio davvero. Perchè non la cerco. Voglio solo giudicarmi.
“Tutto il casino fatto per amarmi” e poi penso alla mia vita con la presunzione di chi già sa tutto, ha capito tutto, e non si aspetta nulla di meglio.
“Tutto il casino fatto per amarmi” e poi mi giudico e mi trovo una persona orribile perché non so dove sto andando.
“Tutto il casino fatto per amarmi” e poi mi trovo sola nel letto, con quella solitudine che è la forma più angosciante di vuoto che si possa provare: essere lontani da noi stessi, non accoglierci, non abbracciarci, non guardarci allo specchio per quello che siamo ma per quello che non saremo mai e volerci male per questo.
“Tutto il casino fatto per amarmi”, di cui un giorno, quando mi farà meno male, riuscirò anche a scrivere.
“Tutto il casino fatto per amarmi” e poi non mi amo.
Ma poi, amarsi, che vuol dire?
Io stasera ho deciso di tornare a casa da lavoro senza mettere le cuffiette, senza mettere una distanza dalla vita, come faccio da quando ho 15 anni, e lasciare che la vita accada con me dentro. Ed è accaduta. E mi sono sentita a casa.
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[ Immagine in evidenza: Foto di Giulia Zaccardelli ]





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