La storica band new romantic degli anni Ottanta sarà in tour in Italia quest’estate: «I Måneskin sono la cosa più interessante successa alla musica italiana negli ultimi anni»
di Patrizio Ruviglioni (by Vanity fair Italia)
I Duran Duran non hanno bisogno di presentazioni. Tantomeno in Italia, dove la band britannica delle varie Hungry like the Wolf, Save a Prayer, A View to a Kill e Wild Boys «ha sempre riscosso un affetto enorme, ricambiato». Parola di Nick Rhodes, tastierista e cofondatore, che condivide con John Taylor (basso), Roger Taylor (batteria) e ovviamente Simon Le Bon, frontman, la storia e i destini di uno dei gruppi simbolo della new romantic e degli anni Ottanta tutti, quando diventarono un fenomeno di costume mondiale, spostando più in là l’asticella della musica specie dal punto di vista tecnologico, con videoclip che sembravano venire dal Tremila e altre amenità. «Pensavamo», ricorda il tastierista, «soprattutto al futuro. E non abbiamo mai smesso». Dalla reunion, nel 2001, quest’approccio si è tradotto in concerti sempre più avveniristici, che rifiutano l’aspetto nostalgico che pure un vissuto del genere imporrebbe. E in estate i Duran Duran tornano in Italia. Le prossime date: il 15 e il 16 giugno al Circo Massimo di Roma, il 18 alla Fiera del Levante di Bari e il 20 all’Ippodromo Snai di San Siro, Milano, per gli I-Days. D’altronde, siamo sempre il Paese di Sposerò Simon Le Bon, il film che nel 1986 fotografò l’ossessione di una generazione per il suo sex symbol. «E poi questa è un’occasione speciale: sono quarant’anni dalla nostra prima volta in Italia, nel 1985, come ospiti al Festival di Sanremo», dice Rhodes.
Che ricorda?
«Un gran casino, c’era gente dovunque che correva, una grande frenesia e un’organizzazione un po’ carente».
Insomma, il solito Sanremo. Del resto siete tornati ospiti anche quest’anno.
«L’abbiamo notato anche stavolta infatti (ride, nda). Ma è sempre divertente muoversi in quel caos. Noi eravamo davvero famosi, all’epoca, e ci colpiva l’alternanza, per esempio, tra la seriosità di certe canzoni e le battute di certi ospiti. Ma abbiamo sempre saputo che era un’istituzione».
VIDEO: Ve li immaginate Ghali e Andrea Bocelli sul palco insieme?
Che rapporto avevano i giovani Duran Duran con le istituzioni?
«Eravamo diffidenti da quelle politiche, mentre quelle più culturali, in quanto pop band, ci hanno sempre affascinato. In Inghilterra non abbiamo un festival del genere, qualcosa che fermi la nazione, davvero, per una settimana l’anno. Anche se, ammetto, Simon è un grande appassionato dell’Eurovision, lo segue sempre, mentre a me fa più strano che la musica possa essere messa in gara. In compenso quando ero piccolo c’era Top of the Pops, un programma settimanale con il meglio del pop britannico: tra gli anni Sessanta e Settanta lo vedevamo tutti, era bello pensare che tutti insieme guardassimo David Bowie, o scoprissimo dei nuovi artisti; creava unità, senso di comunità. I Duran Duran si sono formati lì».
In cosa la new romantic era diversa dai generi precedenti?
«Abbiamo portato all’estremo quell’idea futurista che serpeggiava nella musica di allora, dallo stesso Bowie ai Pink Floyd. Era un periodo in cui ci si credeva ancora, nel futuro. Ricordo che gli arrangiamenti di Giorgio Moroder con Donna Summer mi aprirono la mente. Ma non direi che fossimo così diversi dagli altri: basta guardare le classifiche, c’erano nomi incredibili, è che ciascuno aveva una propria identità, forte; si sentiva un pezzo e si capiva subito chi fosse l’autore».
E oggi?
«No, è tutto più stagnante. Ovviamente ci sono eccezioni, penso ad Uptown funk di Bruno Mars, o a Flowers di Miley Cyrus, una canzone pop perfetta, perché ha una melodia spiazzante e coinvolgente, oltre a tanta personalità. Mi sembra che all’epoca ci fosse più una spinta per creare: oggi è quasi tutto un assemblare cose già esistenti».
Le nuove generazioni in cosa sono diverse da voi?
«Ciascuno è figlio del suo tempo, non li critico. Oggi mi sembra si badi più alla performance e ci sia meno attenzione alle canzoni in sé. Ma preferisco citare le eccezioni positive: i Måneskin uniscono questi due aspetti e sono, credo, la cosa più interessante successa alla musica italiana negli ultimi anni, e quando ho sentito Billie Eilish mi veniva da piangere per quanto fosse brava. In generale, però, direi che le band stanno sparendo, sostituite dai solisti».
Qual è il bello di essere una band?
«È stato semplicemente fondamentale all’epoca del nostro primo, grande successo: avevamo ritmi allucinanti, ma ci facevamo forza a vicenda, c’era qualcuno pronto a sopperire alla stanchezza di un altro. La band è una rete di protezione».
Fu difficile affrontare il successo?
«Sì, ma fummo anche fortunati. Duran Duran (1981), il primo album, fu un successo nel nostro Paese, mettendoci già sotto pressione da giovanissimi. Io non avevo ancora vent’anni. E quando uscì il successivo Rio (1982), che esplose in tutto il mondo, avevamo già le spalle, in parte, larghe. Vivevamo situazioni al limite, da Beatles: ci portavano dagli hotel al palco, perché non potevamo farci vedere in giro, mentre in scena la gente urlava così forte che noi, semplicemente, non sentivamo ciò che suonavamo, e dovevamo guardarci per poter andare a tempo».
Qual è il segreto della longevità?
«Lavorare a testa bassa. Noi, nonostante il successo, non abbiamo mai smesso. E poi le canzoni, che resistono sempre al tempo e alle mode. Abbiamo capito che non si può essere sempre in cima al mondo, ma non per questo bisogna rassegnarsi a stare sul fondo. Ogni giorno è una sfida, presenta dei problemi da risolvere, bisogna sapersi muovere tra le onde. Tanto tutto è ciclico. Ai concerti ci sono bambini, l’altro giorno parlavo con una giornalista di Vogue che mi diceva che c’è una riscoperta dello stile anni Ottanta, il nostro. La moda è un continuo recuperare il passato».
E voi?
«A noi interessa più il futuro. Ecco, tanti artisti faticano ad accettare i cambiamenti, mentre noi, quando abbiamo fatto la reunion nel 2001, ci siamo dati come prerogativa proprio di sfruttare il futuro, le nuove tecnologie e il resto».
L’intelligenza artificiale, in questo senso, la spaventa?
«Assolutamente no, mi spaventa semmai l’uso che può farne la gente. Noi stessi l’abbiamo sfruttata per creare i visual del nostro tour, come strumento integrativo è un portento. E, va detto, nella medicina e in altri campi fa miracoli. Non la userò, da musicista, per creare canzoni, perché non è appagante. Ma mi dispiace a prescindere sapere che esiste chi la vuole usare per replicare, non so, una nostra canzone, o un film di Kubrick. Tutelerei il diritto d’autore, senz’altro. E poi educherei le persone: non capisco cosa possano trovare in queste emulazioni. Ma, di nuovo, non accettarla, almeno nei suoi lati positivi, sarebbe rifiutare il presente».
È così che combattete la routine?
«Anche, sì. Una disciplina ci vuole, prima dei concerti abbiamo una serie di ritualità – tra cui quelle che permettono a Simon di riscaldare le corde vocali – che ci fanno bene. Ma in scena si riparte da zero. Ci diverte l’imprevisto, cercarci con gli sguardi e scoprire che uno di noi, magari, sta per scoppiare a ridere mentre suoniamo. E poi recuperare vecchie canzoni, cambiare ogni sera la scaletta».
Insomma, a quarant’anni dalla prima volta, questi «wild boys» come stanno?
«Sempre carichi. Abbiamo appena lanciato una linea di profumi – una novità che non avremmo mai pensato di fare – e stiamo lavorando a un nuovo album. Il segreto: non guardarci mai indietro. E, ok, conservare le energie per dare il meglio sul palco. Perché il tempo passa per tutti».





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