Prologo del romanzo “Cavalli Marini sotto sclerotica”
Trenta.
Mi sono lasciato dietro trenta chili di carne.
Trenta chili d’odio fuso nell’orrore di poterla godere senza subirne le conseguenze. I chili che avevo a sette anni quando scavavo nella terra per trovare la regina del formicaio.
Suona pretenzioso, ma il numero giusto è quello. Non ci sono bilance qui intorno, ma lo so con certezza. Lo sento.
Il cavallo dei calzoncini mi dondola sotto lo scroto come una cintura di castità.
Prima di perdermi ho bevuto alla fontanella della vecchia casa cantoniera. Non riesco più a ricordare se è stata la mattina del primo o del secondo giorno. Le date adesso non hanno molta importanza. Da allora mi sono dissetato succhiando fili d’erba, foglie dei cespugli imbevuti di rugiada o lappando da piccole pozzanghere. Da qualche parte ho letto che per diventare licantropi occorra bere al mattino presto l’acqua piovana raccolta nelle orme di un lupo. C’è speranza che ne abbia già trovata più di una.
Da bambino raggiungevo quella casupola gialla insieme a mio fratello che voleva spiare certi tizi che ci si chiudevano dentro. Aspettavamo che se ne fossero andati, guardando tra le fessure delle imposte marcite, poi, con l’agilità di una donnola, lo vedevo sgusciare nella stanza col caminetto annerito e ravanare nella cenere. Ma stavolta non mi sono fermato a guardare se lì sotto ci fossero ancora gli ovetti bianchi. Dalla porta li vedevamo brillare come denti d’oro. Allora ero convinto che fossero uova di lucertola, forse perché erano piccoli e lucidi come quelli che estraevo a mani nude dalle lucertole vive catturate nell’orto.
Sono quasi due settimane che vago tra questi anfratti per perdere il senso dell’orientamento. Quella sera i miei non hanno fatto caso al rumore della porta che sbatteva. Sapevano che fino a mezzanotte ero solito starmene fuori casa per andare a bighellonare sulle mulattiere della collina di San Malvasio. Solo che adesso questa ronda non rispetta tabelle di marcia e non segue percorsi botanici.
Nelle piante dei piedi porto incise le rune degli aghi di pino. Di notte sento la pelle brulicare come se le larve stiano già uscendo dai pori. Sono un cadavere che dimagrisce ma non riesce a vomitare la vita. Nell’oscurità i richiami delle civette sono latrati di bambini incaprettati. Ho scoperto che dormire sotto i rami dei faggi è un ottimo rimedio contro il senso di nullità trasmesso dal bianco sepolcrale dei soffitti.
Se spalanco le bocca, la faringe ingoia urla omicide. Giù per le scoscese del sottobosco, nebulose di lucciole veleggiano come lampare su una rapida di cherosene. Non mi sono mai spinto da solo così lontano da casa. Per di più scalzo e senza nemmeno uno zainetto.
Quassù sul monte Strena non sono mai venuto, nemmeno con i boyscout, quando l’estate di cinque anni fa mio fratello mi assegnò il ruolo di mascotte solo per costringermi a fare da bersaglio vivente per il torneo di cerbottana.
La sera della fuga mio padre ha minacciato di vendermi al macello. Il suo è stato solo un modo troppo emotivo per darmi la prova di un affetto che non ha mai nutrito. Mio nonno ridacchiava senza riuscire ad emettere un suono che facesse pensare alla voce umana. Mia madre era scappata in cucina nascondendo il magone dietro una teglia di cannelloni. Dopo la visita del dottor Renda, avevo già deciso di abbandonare questo sacco di concime che chiamano corpo in fondo ad un dirupo.
Devo ammetterlo: adesso mi affascina più il pensiero che la mia decomposizione contribuisca all’humus delle radure che quello di offrire le carni ai colpi della mannaia.
Cinque.
Sono cinque giorni.
Da cinque giorni mi sono lasciato dietro la pigra spianata di Gemiano. Vista da questi settecento metri la vallata mi appare finalmente come l’ho sempre vissuta: un canalino di scolo rigato da un filo di piscio canino. Sono sempre stato abituato a vedere per le strade più cani e gatti randagi che persone e a trovare più umani i primi che i secondi. Finora l’unica forma di vita che abbia incrociato è stato un tasso paffuto che mi ha annusato i piedi credendo forse di avere a che fare con due gambi di sedano.
Non guardo mai dritto davanti a me.
Per la maggior parte del tempo tengo la testa bassa. Questa tenuta di viaggio mi è costata centinaia di escoriazioni. So bene che la cima non è l’obiettivo ma solo l’effetto collaterale a quello di continuare all’infinito la scalata.
Non ricordo da quand’è che non dormo. Ma forse m’inganno. Più di una volta mi è capitato di ritrovarmi su un sentiero diverso da quello su cui procedevo, senza ricordare in che modo ci fossi arrivato. Non escludo che abbia cominciato a dormire in piedi o a muovermi alla sonnambula. Al mattino mi trascinavo lungo un pendio punteggiato d’abeti all’ombra di una grossa cresta di roccia grigia. Le lucertole guizzavano dappertutto nell’erba, segnali elettrici nelle sinapsi di un enorme cervello secco. Ma anche se sono sicuro di aver proseguito in linea retta per tutto il giorno, al calare della sera quello spunzone incombeva ancora sulla mia testa come il becco di un colossale sparviero.
E’ molto strano: nonostante sia metà giugno non ho ancora incontrato nessuno dei villeggianti o dei cacciatori di frodo così comuni a queste latitudini. L’unico rumore che non sia prodotto dagli uccelli o dalle faine è quello delle pale di un elicottero che da giorni volteggia sopra i monti affacciati sulla valle. Da lontano il suo “vrat-vrat-vrat” mi arriva alle orecchie come il verso di un tacchino impazzito.
Da quando sono scappato non ho mai pensato per un secondo che qualcuno potesse darsi pena di allertare la protezione civile.
Ma adesso questo non è più nemmeno l’ultimo dei pensieri.
Da stamattina mi martella in testa senza requie il motivetto di un canzone che devo aver ascoltato dal juke box del bar di Michele la sera prima di scappare.
“Let’s come together, right now, oh yeah, in sweet harmony”
Non rimpiango di non aver perso i sensi quando quel ramo mi è entrato nella coscia. Quel ramo, quel pungiglione, quella scheggia, quella freccia, alla fine aveva sconfinato nel mio mondo.
Il dolore ha dato alla rassegnazione l’aroma di una nuova coscienza.
Mi ha confermato che morire dissanguato non è questione di minuti o di secondi.
Lassù, al centro della ragnatela, gli occhi di Miriam roteano dietro gli specchi sorvegliati dal vespone funambolo.

“Cavalli Marini sotto sclerotica”
Disponibile in formato paperback ed ebook su: Kindle, Amazon, Lulu
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