C’è molto dolore qui. Ieri seguivo la linea bianca sulla strada provinciale dopo averti riaccompagnata a casa. L’auto avanzava senza accelerazione, nessuna marcia ingranata. Procedeva per inerzia, sfruttando la discesa verso la città. I piani inclinati della strada come quelli della mente. Di pensieri che cercavano di allontanarsi da te. Non smettevo di guardare quella linea bianca, ben visibile, che da un lato mi separava dal guard rail e, alla mia sinistra, dalla corsia opposta. Auto sfreccianti, indifferenti ai limiti di velocità. Il tabellone elettronico ha segnato 61 km orari, in un arancione acceso. Il limite era 50. Avrei potuto continuare, nell’assenza di controlli. Avrei potuto, e invece mi sono attenuta a quel limite. Come mi attengo a quelli che mi imponi, continuamente, nel nostro rapporto.
Perché lo faccio? Perché ogni volta mi ritrovo qui, in questa isola che ha correnti con nomi che presto lascerò scivolare via. Adesso sono davanti alla battigia e ho il tuo nome stretto nel pugno, pronto a lasciarlo andare. Mi sento come quando ho letto Si sta facendo sempre più tardi di Antonio Tabucchi. C’è quella scena iniziale in spiaggia in cui l’autore riesce a metterti addosso tutta l’ansia e il dolore della perdita. Lo smarrimento di non poter trovare chi non vuole essere trovata. Persa nell’orizzonte del mare, il corpo inghiottito dall’assenza.
“Non si aspetta chi non può tornare.”. Questa frase del libro la ricordo bene, ho sempre desiderato, come ti ho scritto proprio ieri di ritorno dal tuo viaggio, che tu mi venissi incontro “con la calma di chi ha aspettato un ritorno più del sopportabile.”
Ma tu rimani sempre ai margini del nostro amore. Mi dici sono senza energia. Mi dici io amo così. È come se volessi cristallizzarci in quel Palazzo che abbiamo costruito, in un gioco di parole e di scambi, prima ancora di sceglierci come amanti. Perché l’amore, dopo una certa età, è fatto di investiture. La nostra, che ha superato i 40, è l’età delle perdite, delle scelte dolorose, degli addii, delle delusioni, delle ferite. Ci siamo incontrate e abbiamo contato l’una i buchi dell’altra. Poi, non so bene come, abbiamo eretto un Palazzo, un luogo d’invenzione dove ci davamo appuntamento per parlare, rifugiarci. Lì dovevamo richiudere i buchi. Da amiche, dicevamo. Quel vezzo divenne abitudine. Ogni giorno nasceva una stanza dal nome improbabile, a cui affidavamo una funzione.
Un palazzo come il Castello errante di Howl. L’ho anche disegnato, in quei disegni che poi, da amante, ti ho destinato. Come una stupida adolescente che scrive lettere d’amore, ma lo fa con inutili disegni. Nessuna delle due aveva intenzione di innamorarsi dell’altra. E poi c’è stata la passione, e forse, poco dopo, l’amore. Ma la passione è finita quasi subito, con una serie di spiegazioni ogni volta diverse a cui entrambe volevamo credere.
Stasera mi hai scritto un messaggio, dopo l’ennesimo litigio: “Quando abbiamo deciso di lasciare il palazzo? Lì eravamo noi, e lì sempre ci ritrovavamo.”. Non ho amato questo messaggio. Non potrei. Non riesco a vedere la tenerezza e l’amore che tu pensi queste parole possano contenere. Ma desiderare qualcosa di intangibile, di fisso nel passato mi pare una negazione del presente e una mancanza di tensione verso il futuro.
Perché, sebbene sia qualcosa di tenero, romantico e solo nostro, io a un certo punto ho voluto andare fuori da quel Palazzo. Non voglio vivere dentro una scatola o rifugiarmi in un luogo dove il nostro amore non ha corpo né tempo. Tornare lì, quando lo faccio. è per prolungare il tempo con te, non sostituirlo.
Io sono una che sfida ogni cosa, anche sé stessa. E per farlo rimango sola. E soffro di questa solitudine, nonostante le persone credano che io non provi nulla, che sia una stronza, altezzosa e distaccata. Non lo sono. Soffro maledettamente. Vorrei essere meno risoluta, stemperare la mia tensione morale. Adattarmi, restringermi, sbiadirmi. E lo voglio perché anche con te non mi sento accolta.
Forse, se solo trovassi una persona capace di amarmi tutta, in tutta la mia stancante complessità. Che abbia fame di sentire le mie digressioni sul mondo, sulla politica, sull’esistenza. Che sia affamata delle mie parole, delle mie opere, del mio sguardo. Che abbia voglia di criticarle, metterle in discussione, oppormi le sue visioni. Di confrontarsi, scontrarsi e amarsi nell’imperfezione delle nostre anime. Di vivere e crescere insieme, ma nella totale appartenenza alle nostre diversità. Di berne, riderne, maledirle. Ma di volere sempre – e dico sempre – tornare a casa. E che quella casa coincida l’una nel corpo dell’altra.
Io voglio essere amata e amare così come i libri, le poesie e il mio cuore mi hanno insegnato sin da quando ero bambina. Sin da quando il mondo mi ha detto di stare zitta, di essere diversa, di rinunciare a parti di me per sentirmi parte di qualcosa. Dovrei di nuovo disimparare il poco che ho imparato ad amare di me stessa?
Perché è così che adesso mi sento: sbagliata. E cerco il cortocircuito in me. E non è più sostenibile, tutto questo sentire. Non voglio chiedermi dove poter applicare il taglio e la sutura per piacerti di più, perché tu possa amarmi senza riserve.
E dici di farlo. Ma poi mi sussurri di essere infelice, di non capire quale sia la tua strada, che non dipende da me, che vorresti conoscere gente nuova perché stringersi in due non fa bene. E io rispondo che, se quel due fosse pieno di tempo insieme la tua esigenza avrebbe ragione d’essere, che la necessità di altri avrebbe senso solo se tra di noi ci fosse tempo senza scadenza, scambio, e voglie soddisfatte. Ma non certo in una situazione in cui ci si vede appena un paio di volte a settimana. Una manciata di ore che, sommate, non arrivano mai a una giornata intera.
Ti lascio andare. Perché il tuo corpo è teso altrove, e io non ho mai trattenuto nessuno. Neppure i morti.
Ti lascio andare perché, come hai sempre detto: nulla di te mi appartiene. Quella sera non facevi altro che citare Galimberti e il suo decalogo di amore sano. Ma credo tu abbia preso le parti di ciò che ti fa più comodo. Di quella idea d’amante che sei impegnata a costuire (a volte sembra più volere disimparare l’amore). Mi sento quasi un esperimento del tuo percorso di vita. Come se con me volessi affermare la tua capacità di stare sola al mondo, facendolo in un rapporto in cui controlli i flussi.
Ho avuto di te pezzi in affido, che ho amato, forse addirittura venerato, a discapito di me stessa.
Sii felice. Ma ricorda: la felicità si conquista. È un luogo che si raggiunge, non uno da cui si fugge.
Il mio luogo di felicità stanotte è andare via da te. Da questo amore, l’ennesimo che ha preso in prestito il mio cuore e me lo restituisce in quarti.
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