Durante il IV e V secolo, in Egitto fiorì una particolare modalità di ascesi: un eremitismo moderato, una solitudine intervallata da fugaci momenti di condivisione fraterna. Le dimore anacoreticĥe, sparse come astri solitari nella vastità sconfinata del deserto, ospitavano monaci immersi in una quiete profonda e impenetrabile. Ciascuno di questi asceti, nascosto tra le pareti della propria cella eremitica, intrecciava con dita laboriose stuoie o cestelli. In questi spazi intimi, meditavano sui passi delle Scritture, elaborando preghiere, sussurri spirituali quali “Signore, concedimi misericordia” o “Signore, prestami soccorso”. Tali invocazioni fungevano da “lame taglienti” contro l’invasione dei pensieri erranti e le insidie tentatrici, un tentativo di purificare del tutto la mente per accogliere, nel vuoto così generato, la luce della presenza divina.
Ciononostante, questo loro appartarsi non rappresentava un confine insormontabile. Un sottile legame li univa agli altri confratelli, particolarmente ai giovani apprendisti bramosi di saggezza, che scorgevano in questi maestri spirituali la sorgente di una conoscenza misteriosa e recondita. Esclusivamente al tramonto del sabato e durante la sacralità domenicale, le loro esistenze solitarie convergevano nel luogo di culto, un’oasi di comunione fraterna. I responsi elargiti alle domande dei discepoli, inizialmente mormorati e tramandati a memoria, acquisirono progressivamente consistenza in raccolte orali, cristallizzandosi infine in compendi manoscritti via via più articolati, culminando nell’imponente antologia di 1197 massime sapienziali.
Nell’epoca contemporanea, esaminiamo con minuziosa attenzione questi detti, cofanetti preziosi di una saggezza che oltrepassa i confini della fede cristiana, ricercando in essi la risonanza originaria dell’insegnamento evangelico.
Emerge immediatamente il ricordo di un’intensità primordiale, scolpita nelle parole stesse del Cristo. La sua voce, proclamando l’avvento del Regno, provocava una frattura, una divisione profonda. “Non pensate che io sia giunto a portare armonia sulla terra; non sono venuto a recare la pace, bensì una spada”, avvertiva i suoi discepoli.
Gesù infondeva un ardore interiore, una violenza spirituale diretta tanto verso il mondo circostante quanto verso il proprio io. “Se qualcuno desidera camminare sulle mie orme, rinneghi se stesso, sollevi la sua croce e mi segua”, esortava il Maestro. Chi aspirava a percorrere il suo cammino doveva spogliarsi di ogni ornamento terreno: vincoli familiari, relazioni affettive, tutto ciò che costituiva il suo universo personale, recidendo in modo particolare il legame paterno, poiché un unico Padre doveva riconoscere: l’Altissimo.
La devozione verso Gesù doveva ardere quale fiamma assoluta, esclusiva, illimitata. Non tollerava mediocrità: o ci si trovava avvinti a lui, o si veniva allontanati dalla sua presenza. Questo sentimento, lontano dall’essere una placida comunione, incontrava ostacoli, si scandalizzava della propria veemenza. Non rappresentava la soave intimità predicata dai maestri ordinari, bensì un enigma da decodificare, un paradosso da incarnare.
La fede cristiana, specialmente nella sua manifestazione monastica, non costituiva un percorso delineato dalla ragionevolezza, ma un terreno prolifico di contraddizioni e paradossi. Solamente all’apice dei tempi, quella lama, quella tensione, quell’antinomia intrinseca alla figura del Cristo si sarebbero dissolte in un’effusione di amore purissimo e trascendente. E ancora, echeggiava il suo ammonimento: “Astenetevi dal giudicare, per non subire giudizio; poiché con il metro con cui valutate sarete valutati e con la misura con cui misurate verrà misurato a voi”.
Gesù condannava l’atto stesso della valutazione morale, giacché ogni giudizio, persino il più clemente, celava in sé un’ombra di condanna. Non bastava giudicare con benevolenza; occorreva evitare radicalmente l’impulso di scrutare, soppesare, analizzare, interpretare l’altro, indipendentemente dalle sue azioni. Con una logica cristallina, gli asceti ereditarono questo insegnamento. Evitavano qualsiasi forma di giudizio, proibivano ogni esplorazione nella psiche altrui. Con un salto interiore, si ritiravano nel santuario silenzioso della coscienza, dove dimorava unicamente l’amore divino, incontaminato e indivisibile, un ritorno all’essenziale che completava il cerchio della loro ricerca spirituale e mistica.
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