Di Gianluca Mantoani
L’autunno inizia con qualcosa di banale
l’autunno inizia con qualcosa di banale: chiavi dimenticate in un’altra città, tosse come monete d’argento in gola, una tazza da tè turca,
monete di rame, acqua nella batteria,
grandine,
Non l’ho sentita, ed è già qui, che fa rannicchiare un gatto randagio, strofinandogli le zampe
lasciando foglie sbiadite sui jeans
solo in una notte così piovosa si può sentire bussare alla porta del balcone, solo in una notte così piovosa la si può aprire
ma chi ci starà dietro dipende se la noce si è addormentata di guardia sotto la finestra, se i pini raggiungeranno l’orlo strappato delle nuvole.
e se il lampo ripete il disegno delle vene sulle tue tempie.
l’autunno inizia con qualcosa di infantile: bussa alla porta e scappa; voglio leggere tutto il giorno a letto; sei avvolto come una mummia, garza umida di nebbia –
e continua con qualcosa di vecchio: non beve alcol, un diamante di freddo pulsa nelle sue ginocchia
e così ancora – ogni volta – e ogni volta questo è il primo argomento di conversazione
come se non ci fosse niente di più importante di questo autunno, bagnato come un mattino sotto una crosta prematuramente sbucciata
ruba tempo alle conversazioni di lavoro, intercetta un’ondata di pettegolezzi, si sdraia con un gatto randagio sul balcone, dove dovrebbero raccogliersi mucchi di segreti.
l’autunno ci spinge verso la cucina e ci fa mettere sul fornello il bollitore
l’autunno inizia con qualcosa di banale, ma cresce velocemente come i figli degli altri
un soldo d’inverno rotolerà dal suo freddo grembo, la neve coprirà noi ormai mummificati, congelati a metà parola
poi nessuno busserà più alla finestra del balcone nel cuore della notte
così c’è anche il rischio generale di cessare di esistere per un po’
(di Ella Yevtushenko, traduzione in inglese di Yury Zavadsky e, dall’inglese all’italiano, a cura di Pina Piccolo in La Macchina Sognante
Il conflitto russo-ucraino ha compiuto undici anni. E’ cominciato con l’invasione della Crimea da parte della Russia nel 2014, è proseguito militarmente nel Donbass ed è sfociato, all’inizio del 2022, con l’invasione militare dell’intera Ucraina, sempre da parte della Russia. Non so se capita anche ad altri, ma questa constatazione a me suscita un’imbarazzato senso di scollegamento dalla realtà. Sono ormai più di undici anni che questo paese dell’Europa orientale vive un conflitto armato su parte del proprio territorio e negli ultimi tre anni questa condizione è diventata la cifra costante della vita di tutto il paese. Infine, dal principio del 2025, con l’allineamento della nuova amministrazione statunitense alla descrizione di parte russa del conflitto, la vicenda ucraina ha assunto improvvisamente una diversa rilevanza internazionale e ha fatto irruzione fra le paure e le preoccupazioni anche dei cittadini europei occidentali . La percezione del rischio è cambiata di colpo, tutti (ok, quasi tutti) hanno cercato di informarsi e le mappe storiche dell’est europeo hanno iniziato ad affollare i download. E’ piuttosto sgradevole (ma onesto) ammettere a noi stessi che fino all’irruzione del secondo mandato Trump sulla scena internazionale le notizie di quanto accadeva in Ucraina non bastavano a modificare la nostra percezione del reale. Non è la prima volta che accade (non sarà purtroppo l’ultima): è successo ad esempio con i cecchini sui tetti di Sarajevo negli anni ’90;’ e successo alla fine del 2019, quando le prime immagini dei cittadini cinesi in coda al supermercato con la mascherina non bastarono a suscitare l’allarme che arrivò fragoroso solo qualche settimana più tardi, con i primi vicini di casa soffocati dal Covid e portati via dalle ambulanze.
Nelle more della nostra debole attenzione, in questi anni di guerra tante cose sono cambiate in Ucraina e fra le tante cose una mi pare piuttosto controintuitiva: si è dilatato il ruolo della poesia, ne sono aumentate la percezione e la fruizione. Si è verificata cioè – per usare le parole di una scrittrice ucraina, Oksana Stomina: “… una fioritura letteraria enorme, e nello stesso tempo è cambiata la gerarchia dei generi. Molte persone, me inclusa, osservano che dal 24 febbraio 2022 non è fisicamente possibile leggere le opere lunghe in prosa. Se cerchi di leggere, girerai le pagine senza riuscire a concentrarti. Invece le poesie sono ben accette, trasmettono le emozioni che rispecchiano i sentimenti delle persone“.
È proprio allo scopo di prendere le misure al mutamento che stava interessando il linguaggio a causa della sua brusca frizione con la realtà di guerra, che Ostap Slivinskyi, poeta, saggista e traduttore ucraino, ha creato: “Un dizionario ucraino della guerra“, compilato sulla base di una serie di testimonianze di vittime e testimoni dell’invasione russa. Ed è per dare spazio ad un’esigenza molto simile che altri due autori, Oksana Maksymchuk & Max Rosochinsky, hanno messo in piedi il progetto di una dell’antologia Words of War, “Le parole della guerra”, nel quale hanno raccolto e tradotto in inglese i testi e le storie di autori ed autrici coinvolte a diverso titolo nel conflitto in corso.
Qui ho scelto di riportare, nella mia traduzione assolutamente casalinga, la prefazione del progetto (in originale qui, sul sito internet del progetto), nella quale, fra diverse cose mai banali e niente affatto retoriche, si può trovare una descrizione vivida e argomentata di cosa comporta scrivere e leggere poesie in tempo di guerra; un tema assai più ampio rispetto a quello (comunque interessante e del tutto legittimo) della poesia “partigiana”, che parla di guerra schierandosi anche rispetto al conflitto che testimonia.
Trovo che queste parole siano un documento straordinario di per sé e che abbiano una notevole rilevanza anche fuori dal loro contesto, nel quadro di una riflessione – che a me interessa particolarmente – sul rapporto fra poesia e realtà. Dove per realtà non intendo il qui ed ora del proprio (umanissimo) ombelico esistenziale, ma piuttosto il contesto storico e politico nel quale la poesia (come tutta la produzione artistica e letteraria) viene creata e fruita. Fuori insomma da pacati ragionamenti sul rapporto fra etica ed estetica e dentro invece, per necessità ed urgenze imposte dalla vita, ai nessi che legano il linguaggio – specialmente quello poetico – alle interazioni sociali, alle relazioni di potere, ai conflitti e alle mediazioni che – ovunque – sono necessarie per vivere.
Words of war / Prefazione
(di: Oksana Maksymchuk & Max Rosochinsky)
“Molti di noi nel mondo occidentale hanno una scarsa conoscenza di prima mano della guerra. Normalmente non siamo costretti a confrontarci con la guerra, combattere in guerra, sfuggire alla guerra. Non veniamo torturati, non vediamo le nostre case e le nostre scuole crollare, non perdiamo parenti e amici in guerra, non trascorriamo mesi nascosti negli scantinati perchè questa è la guerra. Quando veniamo coinvolti, come soldati, giornalisti o operatori umanitari allora andiamo in guerra o siamo inviati in guerra, non è la guerra che arriva da noi.
Anche quelli di noi che non vanno e non sono stati in guerra sono comunque consapevoli della guerra, talvolta anche ad un livello molto profondo. Eppure questa consapevolezza è di solito di tipo indiretto; richiede dei ragionamenti. Come per una malattia, noi prima ne incontriamo i sintomi, questi messaggeri del disordine che ci arrivano da regioni allo stesso tempo intime e straniere. Anche se decodifichiamo correttamente tremore e febbre fino a risalire alla causa originale, la ragione stessa del disturbo resta nascosta alla nostra vista . Così, molti di noi in occidente hanno convissuto con la guerra per porzioni significative della loro vita, guerre che sono rimaste comunque fuori dalla portata del loro sguardo; queste guerre nascoste sono diventate parte di noi, hanno dato forma al nostro pensiero, influenzato le parole, le immagini e i concetti stessi coi quali pensiamo. Il modo in cui creiamo significati ha subito cambiamenti e modificazioni nello sforzo di rappresentare questa nuova realtà sia esterna che interiore. Ora, le nostre parole e le frasi che usiamo non solo descrivono e spiegano quello che accade ma tengono anche traccia di ciò che è assente, quel che è distante o rimane nascosto.
Words of War dunque non è solo una risposta interpretativa alla guerra essa è anche uno dei tanti effetti che la guerra ha consolidato. Come arredamenti scassati e corpi mutilati queste poesie sono tracce di quel che è successo e, al tempo stesso, testimoniano che tutto questo è realmente accaduto. Sono una forma di testimonianza anche se ciò che esse testimoniano non consiste propriamente nel resoconto di avvenimenti storici ma è piuttosto la mappa delle trasformazioni cognitive e degli spostamenti semantici sperimentati dalle persone che vivono in condizioni liminali.
La gente che vive in mezzo alla guerra non è mai “gente” astratta, così come la guerra, per chi la vive, non è mai una guerra in generale, astratta. Allo stesso modo, le voci riunite in questo volume non appartengono a qualche astratto “poeta”, sono parole che vengono da persone specifiche, che abitano spazi determinati. Il posto finisce per essere qualcosa che gli stessi editori del volume chiamano “casa“, anche se ormai da tempo non è lì che tornano a casa: questo posto è l’Ucraina, che nella nostra mappa interiore include anche la Crimea.
E’ stato laggiù, a Yalta, che ci siamo incontrati per la prima volta e che ci siamo innamorati e, per i due anni successivi, la nostra storia personale si è dispiegata fra due capisaldi ucraini di un’unica identità culturale: Simferopoli in Crimea e Lviv in Ucraina occidentale. Negli anni successivi abbiamo imparato a navigare il precario paesaggio semiotico di questi due mondi confinanti; mentre i nostri amici americani pensavano che in quanto un russo e un’ucraina noi costituiamo fondamentalmente l’unione di due gemelli culturali; mentre per i nostri amici e parenti, a casa, il nostro era diventato un matrimonio fra tradizioni ostili e un tentativo di riconciliazione fra visioni del mondo opposte.
In questo quadro di cambiamento, l’equilibrio si rivelava fragile e le stesse tensioni che vedevamo emergere nella discussione pubblica occasionalmente emergevano anche all’interno della nostra famiglia. Ci saremmo trovati noi stessi a scambiarci slogan conflittuali riguardanti la memoria, la storia, la lingua, la violenza e la giustizia, con voce sempre più alta, sorpresi noi stessi della presa che questi slogan avevano dentro di noi? Quando l’annessione della Crimea nel 2014 fu seguita dallo scoppio del conflitto militare su larga scala nell’Ucraina orientale, inghiottendo intere città, noi sapevamo già per esperienza che non si trattava solo degli effetti della propaganda di un leader opportunista; si trattava anche della gente, che cercava in qualche modo salvezza, ignorando a che prezzo avrebbe dovuto pagarla. Alienati, astiosi e disperando di poter essere salvati da un mondo che avevano smesso di riconoscere come il loro, essi erano disponibili alla manipolazione, istruiti al cinismo e alla sfiducia dalle anguste “cucine” sovietiche che, attraverso le televisioni russe, promettevano loro un destino speciale e un futuro imperiale.
Per noi, dunque “Words of War” è iniziato come una forma di terapia; cercavamo di rimettere assieme i pezzi di un mondo disintegrato, i cui confini apparivano ad un tempo affilati e sfilacciati e cercavamo allo stesso tempo di amplificare il volume delle voci che suonavano vere in mezzo al coro delle fake news, dei discorsi d’odio, delle ingiurie e della propaganda nascosta.
I poeti non sono un’isolata tribù apolitica con l’unica preoccupazione del proprio artigianato letterario; lungi dal rimanere ciechi davanti al mondo di lotta e conflitti nel quale abitano, essi sono spesso fra i più radicalmente coinvolti – e dunque modificati – dagli eventii. In quanto individui storicamente, politicamente e socialmente situati in un dato contesto, essi sono anche agenti del cambiamento. I loro atti sono importanti così come lo sono le parole. Spesso ci troviamo a considerare le vite dei poeti per interpretare le loro poesie oppure ricorriamo a queste per comprendere le loro vite. Alcuni dei poeti che abbiamo coinvolto nell’antologia sono stati attivamente coinvolti nella guerra in Ucraina orientale in qualità di volontari o realizzando reading per i soldati al fronte, oppure raccogliendo e distribuendo aiuti umanitari alle persone colpite dalla guerra. Altri sono stati coinvolti meno direttamente, ma non per questo meno colpiti da quanto accadeva, poiché il caos ha tendenza a diffondersi, modificare le norme di vita percepite e produrre crepe in contesti prima del tutto pacifici.
Scrivendo questo paragrafo riflettevamo in merito al post pubblicato su Facebook da un poeta – Borys Humenyuk – che è egli stesso un soldato. Humenyuk sostiene di detestare di conoscere nuove persone al fronte, perché spesso quando poi le chiama o cerca di salutarle, qualche settimana dopo, nessuno gli risponde più. La guerra uccide e questo modifica un tipo di esperienza che è fondamentale per noi in quanto esseri sociali, quella di costruire connessioni, “fare amici”. Ma la guerra provoca anche altri – più insidiosi – danni alle relazioni umane; molti dei poeti compresi nell’antologia hanno perso i loro parenti e talvolta, trovandosi su opposti lati della barricata, hanno perso anche i loro amici.
La guerra colpisce tutta intera una popolazione, ma il modo in cui colpisce i poeti merita un’attenzione specifica; attraverso la pratica della loro arte, i poeti diventano spesso particolarmente sensibili ai cambiamenti nel modo in cui collettivamente vengono prodotti significati con le parole e con le immagini. In questo i poeti sono come dispositivi sensibili , ben congegnati e finemente predisposti, capaci di registrare i cambiamenti più rilevanti con una precisione molto maggiore di quella della maggior parte delle persone. Siccome lavorano con il linguaggio, sembra che questo accada quasi automaticamente, comportando un basso livello di riflessione consapevole: come se i mutamenti a livello di imput semplicemente causassero in loro cambiamenti di output. Di conseguenza mutamenti anche minimi possono essere registrati rapidamente e allo stesso tempo i maggiori sconvolgimenti possono arrivare anche a “danneggiare” lo stesso strumento di registrazione; così come accade che guardando direttamente il sole si possa causare agli occhi la cecità. Messi a confronto con eccessivi sconvolgimenti nel campo dei valori e ad intense esperienze borderline i poeti possono trovarsi talvolta anche incapaci di parlare e – nei casi più estremi – incapaci di vivere.
Paragonare i poeti a dispositivi di misurazione non equivale tuttavia a negare le loro autonomia d’azione e capacità creativa e neanche intende alludere ad una ripetizione del “mistico” argomento Heideggeriano secondo cui non siamo noi a parlare una lingua ma piuttosto è la lingua che parla noi. Al contrario, molti poeti sono consapevoli di cosa stanno cercando di ottenere; hanno obbiettivi artistici e progetti poetici e scrivono per specifici target di pubblico; tuttavia, la poesia spesso richiede qualcosa di qualitativamente diverso rispetto alla progettualità, necessita di un elemento di libertà.
I poeti descrivono spesso l’esperienza della scrittura come una specie di trance, che implica il fuoriuscire da se stessi in quanto individui, rinunciando in qualche modo alla propria autonomia individuale. Gli psicologi usano il termine “flusso” per descrivere questo stato di intenso assorbimento nel proprio lavoro; esperimenti mostrano che ciò implica una sorta di stato cognitivo alterato, analogamente a quanto accade con l’innamoramento o con l’eccitazione erotica. C’è forse una ragione per cui gli Antichi, e più di recente i Romantici, parlavano a questo proposito di “ispirazione“, di sentire se stessi “abitati” da un essere i cui poteri eccedevano quelli propri. In effetti non è mai prudente presumere che ci sia identità fra l’Io della poesia e l’ Io del poeta; i poeti stessi spesso affermano di non parlare a nome di sè stessi e a volte non sono in grado di riconoscere come propria la voce che parla attraverso di loro. A causa della loro elevata sensibilità alle riverberazioni del significato nelle sue differenti modalità, i poeti assorbono più di quanto ragionevolmente servirebbe come base per una singola identità individuale e questo può portarli a proiettare voci che possono sembrare contraddittorie e perfino immorali agli occhi di alcuni dei loro lettori. Il loro processo creativo riflette questa sensibilità onnicomprensiva, al punto da avvicinarsi talvolta alla mancanza di scrupoli morali, oppure rassomigliare a disturbi della personalità multipla.
Mettere in luce il prezzo della guerra è precisamente uno di questi casi; i poeti di questa antologia spesso si assumono tale compito deliberatamente e consapevolmente, cercando così di riempire le lacune lasciate dal discorso pubblico burocratico. Tuttavia, perseguire questo obbiettivo li porta al di là della loro prospettiva individuale e anche oltre lo scopo che si erano consapevolmente prefissati. Il resoconto burocratico dei costi della guerra può offrire un senso di controllo sull’inspiegabile e sull’invisibile. Quando siamo messi davanti alla comprensione delle ragioni della tragedia, troviamo conforto nel concentrarci sulla misura quantitativa delle sue dimensioni: il numero dei morti, il numero dei feriti e dei dispersi. I poeti [evitano questo conforto] e spostano l’attenzione sul Sé che sopravvive e sui costi di questa sopravvivenza.
Una possibilità per sopravvivere implica la ricostruzione dell”identità per fare fronte ai mutamenti simbolici cui siamo soggetti. Come la medusa che immersa nell’acqua colorata ne assume il colore; come il neurone che in laboratorio assume il colore di contrasto e permette allo scienziato di seguire le sue connessioni, così il poeta assorbe i cambiamenti simbolici e li rende visibili nel corpo del suo lavoro. Nella poesia “Decomposizione” la poeta Lyuba Yakimchuk si presenta come una donna esausta ed esangue, improvvisamente invecchiata, con solo più un frammento della sua precedente identità giovanile ancora rimanente in lei. Nel suo ciclo “Mi risveglio….” il narratore lirico di Marianna Kiyanovska appare invece come un essere androgino, prodotto dalla guerra , che ciba la morte dal suo palmo così come si darebbe da mangiare ad un cane, solo che lei ha tagliato il proprio palmo aperto, esponendo come cibo la propria carne viva. E ancora, nella poesia “Io volo via...” Vasyl Holoborodko che è fuggito dalla città di Luhansk occupata dai separatisti ed è perciò di fatto un senzatetto, si serve di diverse identità reperite nel mondo delle favole per cercare di scappare da quella realtà: prima come uccello, poi come un soffione… Questi mutamenti nel modo in cui i poeti descrivono gli esseri che stanno dietro la loro voce lirica, come esseri invecchiati, asessuati, spogliati di forma umana, aiutano a raccontare l’effetto della guerra in un modo che le statistiche non sono in grado di rappresentare. I poeti non si limitano a compiangere la morte, essi raccontano le perdite dei sopravvissuti.
Nelle poesie raccolte in questa antologia la guerra è raramente il punto focale. Più spesso, la guerra causa una specie di increspatura semiotica che trasforma la pagina in qualcosa di diverso da ciò che appare a prima vista; più precisamente, non si tratta solo di qualcosa di differente, ma si tratta di qualcosa in piu rispetto a ciò che la pagina offriva inizialmente, allo stesso modo in cui l’illustrazione “anatra-coniglio” è allo stesso tempo un’immagine sia di un’anatra che di un coniglio. Questa increspatura non è meramente tematica e non è confinata all’ambito della semantica, le riguarda entrambe. Ci sono sconfinamenti e spostamenti nella prosodia, nell’intenzione, ci sono salti e rotture sintattiche. In un post su Facebook del 2016 Lyudmyla Khersonska notava che la guerra aveva come immerso diversi poeti ucraini in uno stato di innocenza, una seconda infanzia, nella quale essi si confrontano col bisogno di imparare nuovamente a parlare la loro lingua.
Le stesse poesie di Khersonska quando assumono ora la prospettiva di una ragazza che sta cercando di costruire un riparo per un gatto “rifugiato”, ora di una bambina che vede soldatini misteriosamente sfigurati che la circondano in sogno (per proteggerla? Per minacciarla?) incarnano pienamente questa tendenza
Il bisogno di ricreare un linguaggio che aveva perso la sua originale vivacità porta con sé con il riconoscimento che questo linguaggio ha acquisito ora una nuova qualità: è più frizzante, più affilato e con la potenzialità di diventare, all’occorrenza, addirittura tossico. Questo linguaggio emergente necessita dunque di essere maneggiato con attenzione e responsabilità; questa nuova competenza linguistica non può essere data per scontata, questa lingua poetica deve essere imparata nuovamente.
La poesia è definita non solo da ciò che è ma anche da quel che non è. In tempi di conflitto è vitale resistere alle risposte facili, ma è precisamente questo il tipo di risposte che più desideriamo in tempi di incertezza; le ideologie seducono proprio perché generano significati surrogati e semplicistici per spiegare termini che normalmente consideriamo multi sfaccettati e complessi: “buono” e “cattivo”, “normale” e “anormale”, “cittadino” e “parassita”. Nonostante i poeti non sempre riescano a conservare la loro integrità personale davanti alle pressioni ideologiche, cionondimeno rimangono degli artisti. Il linguaggio poetico spesso rivela che la nostra situazione attuale è solo una delle molteplici possibilità, e lo fa aiutandoci ad immaginare altri modi di essere, pensare, sentire. Ci ricorda che il mondo non è semplicemente “dato” a noi, ma che siamo continuamente coinvolti nella sua costruzione. Riflettendo sulle esperienze che vivono oggi, i poeti spesso lavorano alla creazione della lingua dei futuri poeti: l’esperienza di sopravvivere alla guerra, riparare le case, ricostruire le relazioni, guarire e perdonare. È nelle loro parole che troveremo a nostra volta il modo per esprimere dolore e solidarietà, rabbia ed amore.
Nel selezionare le poesie da includere in questa antologia abbiamo cercato di rappresentare una varietà di voci: gioventù e vecchiaia, femminile e maschile, cupezza e ironia, tragedia e giocosità. Abbiamo provato a tributare una particolare attenzione alle poesie che descrivono l’esperienza femminile della guerra: come madri e figlie, soldate e vittime di crimini di guerra, spose e amanti, cittadine ed esperte. Le voci che abbiamo assemblato in questo volume appartengono ad alcuni fra i maggiori poeti ucraini attivi attualmente. Tuttavia la nostra selezione non è assolutamente esaustiva. Diversi poeti importanti e riconosciuti sono rimasti fuori e nel corso dei due anni e più nei quali abbiamo lavorato al progetto nuove ed urgenti voci sono emerse. Riconoscendo che la risposta poetica alla guerra tuttora in corso è una realtà dinamica, inseriremo questi nuovi nomi nell’edizione online della raccolta. Chiediamo dunque ai lettori di fare riferimento al sito internet dell’antologia per nuove traduzioni, saggi e scoperte più recenti.
Per un lettore italofono e (forse saggiamente) più diffidente di me verso la propria confidenza con le lingue straniere, segnalo qualche possibilità di approfondimento:
- l’Inserto Ucraina su “La Macchina Sognante”
- il libro Poeti d’Ucraina, a cura di Alessandro Achilli e Yaryna Grusha Possamai. (Mondadori 2022), che presenta in traduzione italiana diretta una selezione di poeti ucraini contemporanei, dagli anno’60 ai giorni nostri.
- l’articolo: “Versi in guerra. L’Ucraina si racconta con i poeti al fronte“, su “Meridiano13“
- l’articolo Ucraina. Poeti al fronte, sul sito: Osservatorio Balcani e Caucaso. Transeuropa
- l’articolo “5 poeti ucraini” sul sito “Nazione Indiana“
- e ancora “Ucraina: tre poesie in tempo di guerra, tre poetesse a Roma“, ancora su “Nazione Indiana“





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