Ti immagino
nel ritorno
del tempo promesso
al passero che non conosce
il mio nome,
al passero delle stagioni
con occhi che baciano
il residuo della notte
fulminata da selvaggi odori.
Ti immagino mentre esci
da tutte le morti futili
come l’ultimo trionfo
di un volo tenace,
uomo che sfida
le urla della morte bianca.


Esumazione

( Dedicata alle morti bianche di Carrara)

Mettimi il casco in testa,
così se cado, solo frantumo
il vestito bianco della morte.
Parlo e sono già vestito di rocce,
sono polvere di Carrara.
Scavando, cava son diventato
e le mie lacrime scritte in un muro,
dal vento e la pioggia sono state cancellate.
Le lacrime che non ho versato,
le hanno versate chi mi voleva bene.
Un funebre canto alle catene,
innalza nel vento
un esercito di parole mutilate.
Gli uccelli hanno disegnato nei miei occhi
voli che non riesco più a fare,
idee di avventure mai realizzate.
Asse immobile è la vita,
ferma nelle mie vene.
Mondo fermo da morti e pene
che girano attorno al marmo.
I commenti sono duro pane
sotto i denti
per chi deve masticare la morte
dei propri cari.
“La morte a Carrara
è come un raffreddore,
lo accetti e basta”
Come un’onda alla ricerca della sabbia,
le lacrime ferme negli occhi
son trattenute dall’umile timore di lanciarsi.
Il dolore è come un ripetitore di vuoti,
in tutti i luoghi dell’anima
scrive messaggi,
intrisi di veleni furiosi
e di sete di incubi, mutanti in volti,
riassunti nella tristezza
di un angelo che passa.


A Roberto Vitale

( Operaio morto in Lombardia )

Non si sa di che morte
si può morire,
la corda di risalita affonda
e l’inferno ha porte d’acciaio,
chiuse senza colpa, aperte
per abitudine vicino alla morte
dove si diventa pesanti,
senza una mano, senza un urlo,
che tenga e arresti l’infortunio.
Forse si entra nella morte
come chi perde le lenti:
tutto è vago, la luce si stringe,
mentre la vita si ritira,
come mare che sa
di non tornare più.
Più in là della morte,
c’è la morte.
Più in qua della vita,
c’era ciò che si poteva:
un abbraccio,
una paga giusta,
una strada più sicura.
Ma il mondo mente.
C’è una bugia strutturale
nascosta dentro un capannone,
una fragola che esplode
confondendo l’urlo
con l’allarme guasto.
E allora la colpa
è dell’incidente,
non di chi ha tolto
tempo al riposo,
non di chi costringe
un uomo in pensione
a lavorare ancora,
con mani stanche,
nel ventre dell’inferno.
Il denaro —
parola maledetta —
ci rende cavalli zoppi
che ancora devono correre,
mentre l’anima inciampa
e il corpo cede.
Addio, Roberto!
Nessuno ti ha salutato stamattina
sapendo che sarebbe stato l’ultimo
saluto. Addio Roberto, ancora
ti sento, pensi alla tua madre,
la chiami in un urlo
che si frammenta,
quasi alla fine puoi intravederla.
Chissà perché in molti
quando stanno per morire
chiamano la propria madre
“mamma, mamma”
l’urlo è crocifissione
della parola che nel cielo trema,
disegna labbra.
Ora ti scriviamo,
questa lettera aperta
con rabbia e vergogna,
sulla tua morte bianca si depone
la nostra indifferenza nera.
Ammettiamolo! Dai, ammettiamolo! L’inferno dei poveri
costruisce il paradiso dei ricchi
che non smettono mai di “ammobiliarlo”
con quadri e cornici d’ossa.


La legge che dorme

( Alla memoria del 57enne schiacciato da un muletto – Ravenna, maggio 2025 )

Cadde come cade
una vite allentata dal tempo,
nel ventre cieco del cantiere
dove il giorno non ha voce
e la notte non sa consolare.
Era un uomo,
ma lì –
era solo un numero
inciso su un turno.
Le sue mani erano mappe
di terra e fatica,
i suoi passi –
eco fra colonne d’acciaio,
fra pareti che non ricordano.
Il muletto,
drago cieco di metallo,
lo ha preso
come il tempo prende
ciò che nessuno difende.
E attorno –
solo silenzio.
Norma, legge dimenticata,
addormentata in un faldone
che nessuno apre mai.
Responsabilità?
Dispersa nei corridoi
come nebbia tra le ruspe.
Ognuno abbassa lo sguardo,
cercando l’uscita
dalla colpa.
Eppure non era solo.
È uno di mille,
una lunga collana
di nomi mai pronunciati,
vite inghiottite
nel grembo d’un’Italia
che non vuole vedere.
Ogni cantiere è una frontiera,
ma chi la custodisce?
Ogni casco, una preghiera
che nessuno recita più.
Si lavora
con le ossa in pegno
e i sogni lasciati all’ingresso.
Poi si muore
come carta stropicciata
che il vento porta via.
E il paese?
Conta – non i morti,
ma i ritardi.
A lui non resta
che questo canto
di polvere e sangue,
perché almeno il verso
sia rifugio
dove la giustizia non arriva.
Che si scriva il suo nome
sulle pareti del giorno,
che il suo cuore battuto
non sia solo rumore
nel grande silenzio industriale.


Canto per un uomo invisibile
 
Nella piega del giorno, là dove il sole
s’attarda su zolle ferite e stanche,
crollò l’uomo, carico d’anni e fatica,
come vite spezzata sul tralcio del nulla.
Schiacciato fu, come verbo senza soggetto,
da ferro cieco e mastino di dovere,
quel muletto, golem senz’anima,
servo di un padrone che non conosce pietà.
Un’eco di terra e sangue si mescola
al sussurro del fiume, Santerno testimone,
e l’argine piange, piegato in silenzio,
mentre un’anima albanese si dissolve nel vento.
Ah, Sicurezza! Parola da sermone,
dimenticata nei registri dei profitti,
dove l’uomo è numero e la vita un ritardo,
dove la morte ha la forma d’un incidente.
Chi insegna il valore d’un elmetto,
quando il tempo è denaro e il salario è miseria?
Chi coltiva la cultura della cura,
se il lavoro è catena e non giardino?
Viveva tra i solchi, al confine d’un nome
che nessun telegiornale ripeterà due volte.
Eppure era padre, forse fratello,
portava la voce di chi non ha voce.
Ora che maggio piange ai cancelli,
e le rose sbocciano come ferite,
possa un angelo barocco, dalla veste sbrindellata,
salire con lui nella polvere dorata.
Lasciate almeno che un verso gli sia sepolcro,
una poesia la sua bara d’onore,
perché il cuore d’un operaio
non sia dimenticato nel cemento delle statistiche.
E se la cultura manca – seminàtela.
Non di slogan ma di gesti, di vite salvate.
Ogni cantiere è un altare di rischio:
che vi si celebri la sacralità dell’uomo.


[ SiteLink : Yuleisy Cruz Lezcano ]

2 risposte a “Le morti bianche / 5 poesie di Yuleisy Cruz Lezcano sul tema”

  1. Una più bella dell’altra, di un’attualita tremenda

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