Di Paola Caridi avevo già recensito, poco tempo fa, l’impegnativo Hamas: un volume piuttosto spesso, denso di notizie e di ragionamenti che ho digerito con una certa fatica e che mi hanno illuminato su diversi aspetti della dolorosa storia della Palestina. Questa volta invece si tratta di un testo molto più agile, sia per numero di pagine, sia per il modo in cui i contenuti, pure importanti, vengono proposti. Il gelso di Gerusalemme racconta alcuni aspetti della storia palestinese e si allarga a considerazioni che riguardano l’impero coloniale britannico e anche l’Italia sotto un particolare punto di vista: gli alberi. Si parte dal gelso del titolo, un albero imponente del quale è rimasto solo un moncone, si parla di piante dal tronco robusto e dai grandi ombrelli di fronde, sotto i quali le persone solevano sedersi, riposare, chiacchierare: lecci, fichi, sicomori. Gran parte di questi alberi è stata abbattuta, in terra palestinese, per riconvertire un territorio che ormai da molte decine di anni non è più nelle mani di chi lo abitò per secoli e vi costruì case e villaggi, vi coltivò i pochi campi fertili, vi allevò il bestiame. Da quando il territorio palestinese è finito nelle mani dei britannici, dopo la caduta dell’impero turco, e poi degli israeliani, dalla nascita dello stato di Israele, i villaggi sono stati rasi al suolo, le case abbattute e gli alberi non hanno fatto una diversa fine. Al posto loro, case e città per i coloni, strade e svincoli, muri di delimitazione. Tutto il paesaggio è stato irrimediabilmente stravolto, e non si è trattato di “far fiorire il deserto”, come recitava certa propaganda sionista. Oltre a muri, strade e edifici, i terreni sono stati riconvertiti a monocolture o rimboschiti piantandoci delle conifere, il cui scopo doveva essere quello di rendere “più bella” la Palestina e simile quasi a una Svizzera mediterranea. Via quindi le piante tradizionali del territorio, fatta eccezione per gli aranci e i gelsi per bachicoltura, coltivati in modo intensivo allo scopo di produrre arance e seta da esportare: due imprese economiche dai dubbi risultati, che hanno visto una iniziale fioritura tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, per poi essere spazzate via dai cambiamenti geopolitici, dal crollo degli imperi coloniali nel Medio Oriente e del cambiamento dei mercati che ne è conseguito.

Quando studiamo la storia di un territorio di solito non poniamo grande attenzione alle piante: certo sappiamo delle monocolture che sono state imposte a tutte le terre che le vari potenze europee hanno assoggettato da secoli: le piantagioni di tè e caffè, di ananas, di palme da olio, di cotone, di oppio e via dicendo, tutte monocolture che oltre ad aver violentato in modo grave e spesso irreparabile i territori su cui sono state imposte, hanno condizionato pesantemente l’economia dei paesi colonizzati e hanno ridotto in povertà le popolazioni, costrette a lavorare nelle piantagioni in condizioni di grave sfruttamento, se non di schiavitù, private della possibilità di coltivare il necessario alla propria sopravvivenza.

Gli alberi e le altre forme di vita vegetale, invece, sono fondamentali e siamo stolti noi “moderni” che li trattiamo con negligenza e talvolta li eliminiamo considerandoli inutili o magari anche pericolosi. Dice Amitav Gosh, che ha dedicato un libro alla noce moscata e un altro al papavero da oppio, che esistono diverse forme di intelligenza, una delle quali è quella vegetale, che a noi sembra inferiore alla nostra, ma che, se la si guarda nella lunga durata, può rivelarsi più tenace e determinata della nostra.

2 risposte a “Il gelso di Gerusalemme, di Paola Caridi (Feltrinelli, 2024) Recensione di Marisa Salabelle”

  1. […] Il gelso di Gerusalemme, di Paola Caridi (Feltrinelli, 2024) Recensione di Marisa Salabelle […]

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  2. […] Hamas e Il gelso di Gerusalemme, questo è il terzo libro di Paola Caridi che recensisco quest’anno. Una lettura breve ma […]

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