Le ginocchia sempre sbucciate dai giochi in strada, le cadute dalla bici e le infinite partite a pallone… le vie piene di bambini urlanti, che sarebbero ben presto diventati adolescenti, aggregati in “compagnie” che si ritrovavano ogni sera nello stesso posto durante le fresche sere d’estate.
L’ovomaltina dosata con parsimonia perché costava “un botto” che colorava di un tiepido marrone le tazze di latte riempite di pane dei giorni precedenti, le granite fatte sgretolando i cubetti di ghiaccio, i gelati acquistati con pochi spicci e le chewing gum a dieci lire… ci sentivamo quasi eroi nei giochi di simulazione: “facciamo che…”.
Le estati infinite e la scuola il primo ottobre, quell’apprendere piano e senza fretta, tanto le cose da sapere dovevano essere essenziali, molti di noi dopo la terza media sarebbero andati in fabbrica e lì non ci avrebbero mai chiesto il teorema di pitagora.
I genitori sufficientemente distanti per permetterci di sperimentare e farci male, le scazzottate ed i forti, le avventure in un mondo a tratti fantastico, dove la cerbottana era la dotazione standard per affrontare la vita. Madri e padri spesso alieni perché vissuti in un altro mondo.
Non era un mondo perfetto ma pieno di speranze, un mondo che volevamo rendere migliore una volta cresciuti, senza più bambini picchiati e maestre severe e svalutanti.
Avevamo fiducia nel futuro e nell’amore possibile. Cosa (ci) è rimasto?
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