Di Marco Crestani

Nel tepore di un pomeriggio assolato, cammino lungo una strada sterrata che presto si trasforma in un angusto sentiero erboso.
Sto percorrendo l’antica Via Ariminiensis, un’arteria vitale che, fin dall’epoca romana, ha collegato Arezzo a Rimini. Questo cammino, quasi immutato nei secoli, è stato testimone silenzioso del passaggio di innumerevoli viandanti, tra cui i pastori che guidavano le loro greggi verso i rigogliosi pascoli della Maremma durante la transumanza.
Mentre avanzo, il sentiero mi porta attraverso un boschetto ombroso, fino a sbucare in una radura piena di storia. Qui, come sentinelle del tempo, si ergono alcuni piccoli essiccatoi dal tetto pericolante e un vecchio affumicatoio, vestigia di un’epoca ormai tramontata ma non dimenticata. Quegli essiccatoi, costruiti agli inizi del 1900 dai proprietari terrieri, raccontano la storia di un’agricoltura che ha segnato profondamente la Valtiberina Toscana. In quegli anni, l’unica varietà di tabacco coltivata era il Kentucky, una pianta robusta e dal sapore intenso, che richiedeva un’essiccazione a fuoco diretto con legna di querce.
In questo quadro di quiete rurale, scorgo una figura che cattura immediatamente la mia attenzione: un anziano signore, il cui viso solcato dal tempo è parzialmente nascosto da un ampio cappello di paglia. Si muove lentamente, assorto nei suoi pensieri, mentre fuma un sigaro che emana un aroma deciso. Capisco che anche lui, come me, sta godendo della bellezza di questi luoghi, e sembra esplorarli con la mente, forse richiamando alla memoria ricordi lontani. Non è infastidito dalla mia presenza, anzi, mi sorride, e capisco subito che è una persona gentile.
Con gesti misurati e sapienti, l’uomo sta sistemando una catasta di legna, un’attività che sembra più un rituale che un semplice lavoro. Incuriosito, mi avvicino. L’uomo, notando il mio interesse, interrompe il suo compito e, con un sorriso che illumina i suoi occhi vissuti, inizia a raccontare.
«Vedi questi edifici?» mi dice, indicando le strutture fatiscenti. «Erano i depositi dove si mettevano le foglie di tabacco a seccare. Il tabacco Kentucky, quello che coltivavamo qui in Valtiberina. Si usava la legna di quercia per farlo seccare al punto giusto. È un lavoro che richiedeva abilità e pazienza… sono in disuso da anni, ma se ti avvicini, puoi ancora percepire l’aroma del tabacco che permea l’aria.»
Seguendo il suo invito, mi addentro in uno degli essiccatoi attraverso una bassa porticina. L’interno è un tuffo nel passato: i pali a cui le donne appendevano il tabacco sono ancora lì, incrociati sotto il tetto, silenziosi testimoni di un’attività ormai scomparsa. Il mio sguardo si posa sulla cappa del braciere, e non posso fare a meno di notare che è stata ricavata da un cofano d’automobile, abilmente rimartellato dalle mani esperte di un fabbro locale.
«Ai miei tempi non si buttava via niente,» commenta l’anziano, leggendo la mia sorpresa. «I rottami sono un’invenzione moderna… ai nostri tempi si sapeva dare nuova vita a ogni cosa… e si viveva sotto leggi rigide. Se producevi meno tabacco del previsto, veniva fatta una multa: 50 o 60 lire a foglia. Se ne consegnavi di più, c’era una maggiorazione di 10 o 15 lire. Questo spingeva molti coltivatori a contrabbandare per far quadrare i conti. Dovevamo pur portare il pane in tavola…»
Ascolto con attenzione, cercando di immaginare le difficoltà di quei tempi. L’uomo continua con voce tranquilla, mentre il fumo del suo sigaro danza nell’aria.
«I contrabbandieri erano come fratelli per noi. Venivano da Chitignano con polvere da sparo, che scambiavano con il nostro tabacco. Si muovevano di notte, lungo i viottoli che attraversavano i Monti Rognosi, da Anghiari al Ponte alla Piera. Erano tempi difficili, ma… c’era un legame forte tra le persone. Nessuno veniva lasciato indietro.»
Con pazienza, mi illustra poi il meticoloso processo della concia. «Per fissare il colore» spiega, «le foglie dovevano restare appese per tre giorni e tre notti a quei pali che vedi. Il segreto stava tutto nel calore del fuoco e nell’abilità di chi lo controllava. Ottenere il colore giusto era un’arte: da quello dipendeva il successo o il fallimento dell’intera stagione.»
Poi, con un bagliore nostalgico negli occhi, aggiunge: «Anch’io, sai, da ragazzo ho passato parecchie notti qui dentro, vegliando con gli uomini che badavano al fuoco. Erano momenti magici: per tenere a bada il sonno, raccontavano storie per tutta la notte… e quelle storie, beh, erano piene di leggende e misteri. Si parlava dei contrabbandieri come di eroi, sempre un passo avanti alle guardie, sempre pronti a difendere il loro sostentamento…»
Mentre l’uomo parla, il paesaggio intorno sembra prendere vita. Ogni dettaglio di questi luoghi racconta di una storia intensa, fatta di fatica, sudore, e ingegno, ma anche di solidarietà e orgoglio. Sento di essere entrato, anche solo per un momento, in un passato che, pur lontano, non è stato dimenticato.


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