Nelle stanze attigue c’è il canto,
inscritto nel genoma,
di persone non eguali
un verso di bestia onesta, ma più prossima,
rispetto alle bestie, all’inesprimibilità
del sentimento.
La sedia a dondolo mi stordisce mentre
leggo Nabokov, geniale e talvolta parossistico.
Da giorni non agisco e penso
senza cercare o accogliere direzioni.
Penso a quello che mi piace ma non mi serve.
Valuto: quando non mi serve.
Recupero ricordi e frammenti.
C’è il frammento, per esempio,
delle lenzuola stropicciate ingiallite e stantie,
tanto accoglienti,
di quando ho per la prima volta
recitato la formula non magica che recita,
senza didascalie né tatto, ma con molto
amore: scopami. Recupero il frammento
di persone non eguali, come il giovane uomo
scompigliato e tanto gentile
che ci teneva lo spogliatoio più grande in piscina,
stupito e rassegnato,
o dell’altro giovane uomo
egualmente non eguale
che urlava nella sezione piccoli della biblioteca
facendo-mi feroce paura e
attrazione in percentuali allarmanti.
Il frammento di quello che ho mollato
nell’istante stesso nel quale non mi dava
soddisfazione alcuna, talmente eguale.
Così vedo le cosce di una giovane donna e
rifletto, senza frammentare ulteriormente
il pensiero, sulla perfezione che ha cessato di troneggiare. Mentre mi sento di tuonare
e ri tuonare, sedendo sempre sulla medesima
sedia, eguale e non eguale, nell’imperfezione
che non significa nulla, nel bassorilievo del senso
che non prevale né galleggia,
con le mani fra le mie cosce, sempre eguale,
mai più eguale, ancora dondolata in questi
pochi e rari istanti di pace fortuita.
Potendo dire e esprimere e dichiarare.
Prossima all’osso reale, rettificata.
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