Recentemente Guanda ha ripubblicato Underground, di Vladimir Makanin, un romanzo uscito per la prima volta vent’anni fa, nel 2005. Ho letto la recensione sul manifesto e mi è venuta la curiosità di leggerlo, così l’ho cercato nel circuito delle biblioteche toscane e dopo qualche giorno mi è arrivato, in un’edizione Jaca Book del 2012. Un malloppo di 574 pagine che ho letto in una quindicina di giorni. Confesso che all’inizio ero tentata di desistere, invece proseguendo nella lettura mi sono appassionata e finalmente ho compiuto la missione. Che romanzo è, questo Underground, lodato come un capolavoro, studiato nelle scuole russe? È la storia di un uomo, un certo Petrovič, di cui si conosce solo il patronimico, dato che il nome proprio non se lo ricorda nessuno, nemmeno lui. Petrovič vive in una casalbergo, un immenso edificio di piani su piani, corridoi lunghissimi, decine e decine di appartamenti: era una sorta di alloggio collettivo durante il comunismo, ma ora siamo nel 1991, durante la transizione, l’Unione Sovietica sta per dissolversi, qualcosa è rimasto uguale, qualcosa sta rapidamente cambiando. Petrovič è un underground, uno scrittore che non è mai riuscito a pubblicare un rigo, che gradualmente ha smesso di scrivere e ne va fiero; non ha una casa, un alloggio assegnato, e se la cava facendo il custode degli appartamenti che rimangono vuoti, per periodi più o meno lunghi, nella casalbergo, perché i proprietari (o assegnatari) sono in viaggio, in vacanza, si sono trasferiti, o perché l’alloggio, rimasto vuoto, aspetta il nuovo inquilino. Ogni volta che un appartamento resta vuoto Petrovič vi si trasferisce, dorme nel letto dei legittimi abitanti, guarda la loro televisione, consuma le provviste del loro frigo e soprattutto si scola tutte le bottiglie di grappa, vodka e di altri intrugli a base di alcol. In cambio di ciò fa la guardia all’alloggio affinché nessuno se ne appropri. Ha amici, Petrovič, nella casalbergo, molti sono gente come lui, intellettuali e artisti ridotti a vivere di espedienti, senzatetto in cerca di un posto dove passare la notte, bevitori incalliti. Ci sono anche donne, presso le quali Petrovič può andare in visita a mangiare qualcosa, può dormire nel loro letto e godere del loro amplesso: con alcune si instaura una relazione importante, altre sono solo meteore. Gli piacciono le creature fragili, sofferenti: si affeziona a Veronika, una giovane alcolista che per un periodo si stabilisce in uno dei “suoi” appartamenti, di quelli che custodisce, cioè; si lega a Lesja, un tempo pezzo grosso dell’establishment, poi caduta in disgrazia: Lesja piange, si tormenta, vuole punirsi per colpe che ha commesso ai tempi in cui aveva potere, e Petrovič a un certo punto sospetta che la punizione di Lesja si proprio lui, un uomo che la donna disprezza ma al quale si unisce per espiare le proprie colpe.
Nel corso di un breve periodo, dilatato da molti flashback che illuminano il lettore sul passato del protagonista e anche sul mondo sovietico degli anni precedenti all’avvento di Gorbaciov, si compie il destino di Petrovič e quello di suo fratello Venedict. Petrovič si trova invischiato in ben due omicidi, viene ricoverato in psichiatria, viene poi rilasciato; in psichiatria invece, sottoposto a cure volte a distruggerne la personalità, è relegato da anni Venja, artista geniale ma inviso al sistema e trasformato in una larva, un una sorta di bambino dolcissimo e innocuo. Non a caso le ultime righe del romanzo sono affidate a lui: dopo una giornata di libertà passata in compagnia del fratello, che tuttavia non può o non vuole prenderlo con sé, Venedict rientra a sera in ospedale.
«Si è voltato… Venedict Petrovič si è voltato, per vedermi da lontano. Voleva che anch’io lo vedessi. Ha respinto i due infermieri. E ha detto loro, con calma, rivolgendosi a entrambi come per chiarire le cose una volta del tutto: “non spingete, vado da solo”. […] E si è perfino raddrizzato, fiero, anche solo per quell’istante: il nostro genio russo, pesto, umiliato, strattonato, sporco di merda, e ciononostante: non spingete, ci arriverò, da solo!»





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