Io non avevo mai letto nulla di Domenico Dara, uno scrittore di cui ho sentito parlare già da molti anni, e che consideravo un autore di nicchia, raffinato e  poetico. Non per nulla i suoi primi libri, dai titoli suggestivi (Appunti di meccanica celeste; Breve trattato sulle coincidenze) sono usciti presso un editore raffinato e di nicchia, Nutrimenti.  Qualche tempo fa in libreria mi è capitato di vedere il suo ultimo romanzo, Liberata, edito da Feltrinelli, di averlo preso in mano e sfogliato, di aver considerato se comprarlo o meno; alla fine ho scelto la soluzione che spesso adotto per i libri che sono curiosa di leggere ma non sono sicura che non mi deluderanno: l’ho preso in prestito in biblioteca. E ho avuto ragione.

Liberata, un volumone di oltre 380 pagine, racconta la storia di una ragazza, Liberata Macrì, che vive in un imprecisato paesino calabrese. Il padre ha un’officina meccanica, la madre è una devota animatrice della vita parrocchiale e lei fa la dattilografa a chiamata, essendo refrattaria all’idea di un impiego fisso. La sua migliore amica, Giuditta, ha un negozio di merceria e un fidanzato, il suo amico Glauco, edicolante, è un attivista politico: siamo negli anni Settanta e Liberata è un’appassionata lettrice di fotoromanzi, ai quali si ispira e sui quali sogna; in particolare, è innamoratissima di Franco Gasparri, il bellissimo attore che imperversava a quell’epoca. Suo padre invece è un appassionato entomologo, e le rispettive collezioni di riviste e di insetti si guardano e ammiccano da un lato all’altro del soggiorno di casa. In questo piccolo e bizzarro universo irrompe un giovane bello e arrogante, che inizia a lavorare nell’officina e sembra essersi innamorato istantaneamente della timida e sognatrice Liberata.

Gran parte delle 382 pagine del romanzo racconta questa realtà: gli insetti e i loro peculiari modi di sopravvivere, i fotoromanzi e il modo in cui creano un immaginario sentimentale che non sempre corrisponde alla realtà della vita, i vari clienti che affidano a Liberata testi di vario genere da battere a macchina, la preparazione di una manifestazione antifascista e l’inquietante serie di decapitazioni di madonne lignee nelle chiese dei dintorni, e poi personaggi strampalati, come il sagrestano Beccaria e la maga Adele,  i battibecchi tra Liberata e sua madre o tra Liberata e Luvio, l’innamorato di cui lei non si fida del tutto. Ci sono spunti interessanti, personaggi curiosi, forse un eccesso di allegoria, ma indubbiamente c’è anche una notevole prolissità, una ripetizione talvolta noiosa di situazioni, dialoghi spesso insignificanti e le perle di saggezza che si deducono dall’osservazione degli insetti e dalla lettura dei fotoromanzi sono spesso assai banali.

A un certo punto tutto accelera, il romanzo diventa cupo, succedono fatti inquietanti, e questo, se da un lato rinvigorisce una narrazione che pareva essersi alquanto appiattita, dall’altro porta a una soluzione puzzle nella quale ogni minimo frammento rientra nella ricostruzione del tutto. Ogni personaggio conosciuto anche di sfuggita, ogni episodio, ogni situazione entra a far parte di un quadro perfetto nel quale tutto si tiene. Ecco, io, per come sono fatta io, che sono fatta piuttosto male, rifuggo da quei romanzi in cui ogni tassello finisce per incastrarsi alla perfezione in un insieme coerente.  Uno potrebbe dire, wow, che bravo Domenico Dara, le ha pensate proprio tutte, non si è lasciato sfuggire neanche un dettaglio. Ma siccome la vita non è affatto un puzzle e le persone che incontriamo, le situazioni in cui ci veniamo a trovare, nella realtà non finiscono mai per incastrarsi alla perfezione una nell’altra, ecco che a me questo tipo di storie lascia sempre un retrogusto amaro. Posso accettarlo per un giallo alla Agatha Christie, autrice che venero, maestra del “giallo enigmistico”, ma anche la letteratura poliziesca dai tempi di Dame Agatha si è evoluta e ha iniziato a contemplare storie in cui gli elementi non vanno a completarsi a puntino ma restano confusi, caotici, a volte inconcludenti. Okay, so cosa state per obiettare: sei tu che sei fissata col realismo, esistono anche altri modi di raccontare storie. Lo so, lo so, non dubitate. Una vita da lettrice mi ha permesso di conoscere di tutto, compresi i romanzi allegorici. E tuttavia, se il meccanismo diventa troppo scoperto, se la soluzione della storia è troppo perfetta, io storco il naso. Sono fatta così, sono fatta male, come diceva la buonanima del mio babbo (lui lo diceva al maschile, per sé).

Mi rimane un’ultima cosa da dire su Liberata, che poi è la cosa più importante nella letteratura, ed è la lingua di questo romanzo. Una lingua colloquiale, ben padroneggiata dall’autore, ma fin troppo piatta, punteggiata qua e là da riflessioni enunciate in tono sentenzioso. Un uso massiccio del “che polivalente”: per chi non lo ricordasse o non avesse le idee chiare sulla questione, il “che polivalente” consiste nell’uso della parola “che” in modo flessibile e non preciso, spesso per introdurre frasi subordinate con diverse funzioni (esplicative, consecutive, causali…). Da molti considerato un errore, il “che polivalente” è stato nobilitato da Manzoni e Verga e anch’io ne faccio uso spesso. Non quanto, però, ne fa uso Dara in questo romanzo, dove spesso si avvitano frasi a cannocchiale con svariati “che” inanellati l’uno dietro l’altro, o dove a volte questa particella viene usata a inizio frase con un effetto un po’ stucchevole, specie se ripetuto (“Che poteva essere un bel modo di chiamarsi…”). Ho annotato, per pura malvagità, una frase nella quale quel maledetto “che” gliel’avrei fatto mangiare, a Domenico Dara: “Liberata uscì di casa che rimase molto in bagno a farsi bella”. Marisa, mi direte, tu non capisci il bello del registro colloquiale. No, io lo capisco benissimo, ma questa frase mi stride come un pezzo di gesso sulla lavagna, colloquiale o no.

Infine, una cosa che ritengo sia una piccola furbata, una carineria dell’autore, un modo per strizzare l’occhio al lettore, e non escludo che gliel’abbia suggerita l’editor di Feltrinelli. Ecco di che si tratta. Molti capitoli finiscono con un aggettivo con il quale Liberata (un nome che è a sua volta un aggettivo, come avrete notato, o meglio ancora un participio passato) definisce se stessa. Malinconica, Imbambolata, Ingannata, Irrequieta, e altri ancora. E ogni volta lo stilema che conclude il capitolo è questo:

“Che poteva essere un bel modo per chiamarsi.

Malinconica.

Malinconica Macrì.”

O, volta per volta, Imbambolata, Ingannata, Irrequieta, e altri ancora.

Ecco, dico la verità: a me ‘sta furbatina qui non mi è andata proprio giù. Che ci volete fare? Sono fatta così, sono fatta male.

3 risposte a “Liberata, di Domenico Dara (Feltrinelli, 2024) Recensione di Marisa Salabelle”

  1. […] Liberata, di Domenico Dara (Feltrinelli, 2024) Recensione di Marisa Salabelle […]

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  2. Nemmeno tu, Pina, sei rimasta soddisfatta?

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