L’istante prima
Non ricordo come sia successo.
Forse è stato il vento. O forse l’asfalto. Una curva, una macchina. Poi il buio.
Non il buio vero. Qualcos’altro.
Un posto che non conosco ma che riconosco. Sospeso. Senza tempo.
Come se fossi diventata osservatrice di me stessa, ma senza specchio. Il corpo c’è, ma non pesa. La testa è piena. Non di dolore. Di frasi, immagini, voci.
Tutto si sovrappone. Come se qualcuno stesse raccontando la mia storia con parole che non conosco.
L’eco di lui
Lo vedo nei sogni.
Ma non è un sogno, non come quelli che si dimenticano al mattino. È qualcosa che resta incollato alla pelle, come l’umidità prima della pioggia.
Un odore di tabacco e sabbia, di pelle abbronzata e tempo consumato.
Non ricordo di averlo mai abbracciato. Forse non l’ho mai incontrato.
Eppure mi parla. O forse sono io che gli parlo attraverso le storie che gli altri hanno raccontato.
Era un uomo di parole sussurrate, di promesse mai fatte, di partenze improvvise.
Si dice che non temesse la morte. Che le andasse incontro.
Io invece la temo anche solo nei pensieri.
Mia madre dice che la guardava come se sapesse qualcosa.
Io non so niente.
Lui invece pare sapesse sempre dove stava andando, anche quando non lo sapeva davvero.
Ci sono giorni in cui sento che non è mai andato via.
Che sono fatta della sua assenza, più che della sua presenza.
E quando chiudo gli occhi, mi sembra che ci sia un filo sottile, un ponte invisibile, tra le sue battaglie e la mia quiete.
Un legame fatto di gesti che non ho mai visto, ma che conosco.
Una malinconia che mi cresce dentro, senza nome.
Mi hanno raccontato che una volta ha sorriso, ferito, sotto il sole dell’Africa.
Aveva sparato a un animale e poi gli aveva chiesto scusa.
Io non ho mai tenuto in mano un’arma.
Ma a volte sogno quel momento.
E penso: forse, in qualche modo, quella vita spezzata è anche dentro di me.
il leopardo
C’era questa storia. Forse è solo una leggenda di famiglia. O forse è l’unica verità che sia mai stata detta su di lui.
Dicevano che in Africa avesse incontrato un leopardo.
Che non lo avesse ucciso, in realtà si racconta che lo avesse guardato e la bestia avesse ricambiato lo sguardo.
Poi si erano fermati, uno di fronte all’altro. E lui — così raccontano — aveva allungato la mano. E il leopardo si era lasciato toccare. Un uomo che accarezza un leopardo.
Che non lo combatte.
Che non scappa.
Cosa significa un gesto così?
Ancora oggi non lo so.
Ma ogni volta che ci penso, sento qualcosa muoversi dentro. Come se quella scena — inventata, esagerata, mitizzata — fosse mia. Come se fossi stata lì anch’io, nascosta tra le ombre, a trattenere il fiato.
Il leopardo è un simbolo.
Lo so.
Forse è la morte.
O forse è solo la parte di sé che non si può addomesticare.
Quella che non si racconta nemmeno agli amici.
Quella che si riconosce solo nell’istante prima di morire.
A volte penso che quel gesto non sia mai successo davvero.
Che sia solo un modo per spiegare chi era lui.
Un uomo che sapeva restare fermo di fronte alla paura.
Che sapeva riconoscere la bellezza anche nel pericolo.
Che non voleva dominare il mondo, ma semplicemente esserci dentro, anche solo per un momento.
E allora mi chiedo: Se lui ha accarezzato il leopardo, io cosa sto facendo? Sto vivendo davvero?
O sto solo passando, aspettando che qualcosa accada?
Non so se riuscirò mai a guardare un leopardo.
Ma ogni volta che sento il vento — quel vento sottile che arriva all’improvviso e mi sfiora il collo — mi sembra di sentirlo respirare.
Sciogliersi nel vento
Non so più dove finisco io e dove comincia lui.
Forse non c’è mai stata una separazione.
Le voci dentro la mia testa non sono soltanto mie.
A volte mi sembrano sue.
Altre, come se parlassero da un altro tempo, da un altrove che non ho vissuto ma che riconosco.
Il mio corpo non si muove.
Non sento il freddo, né il calore.
Solo il vento.
Lo stesso che forse mi ha portata via quella sera.
Lo stesso che ora mi culla, come se avesse deciso che fosse il momento.
Non ho più paura.
Non c’è più niente da capire.
Tutte le storie che mi sono state raccontate, tutte le immagini che ho raccolto, non dovevano avere un ordine.
Era tutto già scritto, ma in una lingua che non si legge.
Si ascolta.
Si respira.
Capisco adesso perché lui non aveva paura.
Non era coraggio.
Era resa.
Era conoscenza del fatto che nulla si possiede davvero.
Nemmeno la propria vita.
Nemmeno i propri ricordi.
Io non so se sto morendo.
Forse sono già morta.
O forse sto solo diventando qualcos’altro.
Una voce, un’eco.
Un frammento da passare a qualcuno che verrà dopo di me.
Il vento mi entra nelle ossa.
Mi svuota.
E io lo lascio fare.
Mi sento leggera.
Come una pagina strappata da un diario mai scritto.
Non ho più bisogno di ricordare, né di sapere.
So che lui è qui.
E che in qualche modo, io sono sempre stata lì, accanto a lui, tra il leopardo e il silenzio.
Mi sciolgo.
Mi affido.
Il vento mi prende.
E finalmente, sparisco.
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