Era il 29 giugno, una domenica pomeriggio, e il sole a Varallo accendeva i tetti antichi di una luce calda e immobile. Le vie del centro erano più silenziose del solito: qualche anziano camminava lentamente lungo i portici, le finestre socchiuse lasciavano intravedere tende di pizzo, e il Sacro Monte riposava, in alto, come un vecchio saggio addormentato. Io camminavo senza fretta, con un’idea ben chiara: tornare da Marisa.
Il giorno prima, il 28, l’avevo incontrata per caso. Ero entrata nel suo negozio Al Ciadel, un nome che già da solo raccontava disordine e poesia, attirata da quella porta sempre aperta e da un tavolo ingombro di oggetti, collane di granati, pizzi, foulard, piccoli misteri dimenticati. Quella prima visita era stata folgorante. Lei mi aveva raccontato storie con una voce piena, calda, vibrante. Ed io, che ero a Varallo come poetessa in cerca di voci da narrare, avevo capito che Marisa non era solo una venditrice, ma una custode. Una donna piena di memoria. Così, la domenica, sono tornata.
Lei era lì, come se mi aspettasse. Quando le dissi che faceva parte del mio progetto di scrittura, che il mio lavoro su Varallo avrebbe avuto il suo volto dentro, sorrise. Un sorriso lento, largo, come una finestra che si apre su una valle. «Allora resta, che ti faccio vedere altre cose.» E tirò fuori da un baule vecchio, profumato di legno e di tempo, un grembiule. Lo distese sul tavolo come si stende una reliquia. «Questo lo mettevano sopra la gonna. Serviva a tutto: a proteggere, a scaldare, a lavorare. Ma soprattutto… a raccogliere.»
La guardai, incuriosita. Lei riprese: «Con questo, le donne andavano per i pendii, su per le mulattiere, tra le rocce. Raccoglievano l’erba ziu, o erba latte come la chiami tu. Una pianta che serviva a nutrire le bestie, che rendeva più ricco il loro latte. La raccoglievano a mano, si riempivano i grembiuli e poi scendevano, piano, coi piedi larghi per non scivolare.» Tacque un attimo, poi con voce più bassa aggiunse: «Poi andavano a venderla al mercato. E lì, per la prima volta, toccavano i soldi con mano. Pochi. Ma abbastanza per comprare i fili per il puncetto. Quei fili, sai, costavano. E si potevano comprare solo così. Salendo e scendendo le montagne.»
Mi fece vedere anche i fili antichi, sottili come vene d’argento, avvolti su rocchetti che sembravano usciti da un presepe alpino. «Queste donne non avevano niente, ma erano ricche. Ricche di mani, di pazienza, di testa. Si cucivano da sole i costumi, li ricamavano, li tingevano con le erbe. Lavoravano sempre. Parlavano e filavano. D’inverno stavano nella stalla, dove c’era il calore delle bestie. Il lavoro era la loro lingua madre.» Prese un altro grembiule, lo indossò. Lo stesso gesto che, il giorno prima, aveva fatto con i foulard. Ogni oggetto diventava un personaggio. Ogni vestito, un racconto incarnato.
Mi raccontò anche una storia che non avevo mai sentito. A Rimella e a Ferrera, la domenica dopo il matrimonio, fuori dalla chiesa, mettevano dei tronchi in fila, a terra. Le donne sposate dovevano saltarli. Uno per uno, da quello più stretto a quello più largo. «Era un rito. Una prova. Ogni tronco rappresentava una difficoltà della vita. E loro li saltavano, coi vestiti buoni, davanti a tutti. Come per dire: sono pronta. Qualsiasi cosa venga, io ci passo sopra.» Restai in silenzio a lungo, con il cuore pieno.
Nel negozio, le voci del passato sembravano sospese tra le camicie ricamate, i bottoni di madreperla, le stoffe fiorite. Marisa continuava a parlarmi come se ogni oggetto fosse vivo, come se i pizzi e i granati e i rocchetti potessero raccontare da sé. E forse era così. Iniziai a pensare che in quelle donne, nella loro fatica, nella loro arte paziente, nella dignità di chi costruisce bellezza anche nella povertà, ci fosse qualcosa di sacro. Un filo invisibile, come il puncetto, che unisce pieni e vuoti, memoria e presente. Quando uscii dal negozio, Varallo mi sembrava diversa. Più antica. Più vicina. Come se, nel raccontare di quelle donne, Marisa me l’avesse data in adozione. Come se fossi entrata, per davvero, nel grembiule della valle.
Uscita dal negozio, con le immagini ancora vive delle donne che saltavano tronchi e raccoglievano erbe nei grembiuli, mi sedetti su una panchina poco distante. Varallo mi sembrava più silenziosa del solito, ma forse ero io a essere cambiata, ad aver imparato ad ascoltare ciò che prima passava sotto traccia: il rumore leggero dei passi sul selciato, il vociare basso di due anziani sotto un portico, il vento che sfiorava le bandiere appese alle finestre. Ritornavo con la mente alle mani di Marisa che accarezzavano gli oggetti, come si fa con qualcosa di vivo. C’erano gesti che mi avevano colpito: il modo in cui ripiegava un pizzo, come se fosse un fazzoletto con dentro un segreto. O quando mi mostrò un orecchino antico, un piccolo granato incastonato tra sfere d’oro basse, da 12 o 14 carati. Me lo porse con una frase che ancora adesso mi risuona dentro: «Sai, questi orecchini erano i loro beni. Le donne li portavano sempre. Ma quando arrivava la disgrazia… una morte, una malattia, la fame… staccavano una pallina d’oro, la portavano all’orefice. Un pegno, sì, ma non un addio. Dopo un po’, quando riuscivano a mettere via qualcosa, tornavano e la ricompravano. Volevano ricomporre quel piccolo tesoro. La dignità passava anche da lì.» Parlava piano, come se non volesse disturbare le donne che nominava. Come se ancora vivessero nel grembiule appeso dietro la porta, nel puncetto steso in vetrina, nelle forbicine da cucito con la punta dritta. La sua voce mi riportava a una Valsesia che non era una cartolina per turisti, ma un tessuto fitto di silenzi, sguardi, sacrifici. Mi parlò anche della brenta, la gerla che portavano sulla schiena, piena di legna o erbe, e di come camminassero per ore anche incinte, o con i bambini piccoli legati con le fasce. «Facevano tutto senza dirlo. Era normale. Il lavoro non si raccontava, si faceva. Ma poi, quando si sedevano un attimo, magari mentre cucivano, parlavano. E lì venivano fuori i sogni, le paure, le speranze. Era l’unico lusso: la parola condivisa mentre le mani lavoravano.»
Quel pomeriggio capii che il racconto di Marisa non era solo una memoria affettuosa. Era una forma di resistenza. Lei stava tenendo insieme le storie, come si tengono insieme i punti del puncetto. Annodava ricordi, fatiche, oggetti, vite. Stava costruendo un ricamo narrativo, dove ogni donna aveva il suo disegno, la sua parte piena e la sua parte vuota. E quel disegno era ancora oggi leggibile, se solo si aveva la pazienza di osservarlo. Mi alzai infine dalla panchina e guardai il cielo che sfumava in un azzurro sempre più tenue. Mi sentivo diversa. Avevo in mano solo un piccolo quaderno con degli appunti, ma in realtà portavo con me un tesoro: l’eredità raccontata da una donna viva, in un negozio vivo, in una valle che continua a tessere storie anche quando nessuno se ne accorge. E mentre tornavo verso Bologna, con Varallo alle spalle e le parole di Marisa ancora nella testa, pensai che quelle donne non avevano mai smesso di parlare. Solo aspettavano orecchie giuste per essere ascoltate.









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