Capita, durante i colloqui clinici, di assistere ad un preciso timore nella persona che dall’altra parte della scrivania è seduta. La eco che aleggia e si abbassa come una nuvola capricciosa sulle nostre teste prende il nome di silenzio.

Si sa, l’essere umano è profondamente turbato dal suono del silenzio; la sospensione della comunicazione, l’assenza della parola detta (o scritta) reca con sé quel legame nemmeno troppo taciuto con la fine pertanto: la morte.

Ciò che non si considera è però che il silenzio si presenta come una possibilità viva e piena di potersi sintonizzare (o ri-sintonizzare) con se stessi in quanto è nell’involucro silenzioso che possiamo circoscrivere il rapporto con l’Altro, con il proprio sé e il proprio corpo. E’ nell’interazione di questi tre piani che il silenzio si incista dotandosi esso stesso di un corpo che assume le sembianze dell’inconscio.

Quando il linguaggio analogico e digitale perde la sua vocalizzazione ecco che l’inconscio si fa strada e permea l’esperienza di vita del soggetto.

E’ proprio tramite la parola, certo, ma soprattutto il non detto (quindi il silenzio), che l’inconscio si fa pettegolo.

Un silenzio non è mai privo di contenuto e si presenta, anzi, come possibilità generatrice e creativa di riscoperta.

Il taglio della comunicazione, per esempio, quello spazio di silenzio che può apparire come una lacerazione, uno strappo crudele dell’interazione umana non ha sempre una valenza distruttiva.

Un silenzio “adulto”, si potrebbe dire, quasi scientifico può risanare e riposizionare domande e risposte della mente comportando uno scatto maturativo interno.

Il silenzio non è necessariamente morte né tanto meno va visto come atto punitivo. Siamo troppo abituati a vedere nel silenzio la negazione all’Altro, adducendogli quindi una accezione sfavorevole.

Spesso, invece, è nel silenzio che si ritrova l’Altro accorpandolo proprio a quella riscoperta di sé che diviene atto necessario per tollerare e sopravvivere agli enormi scossoni che la vita ci pone innanzi.

Che sia molto silenzio allora, richiamando a quella importantissima capacità citata da Winnicott, in Sviluppo affettivo e ambiente, 1965, della capacità del bambino di stare da solo anche in presenza degli altri.

Silenzio e solitudine sono stati, concettualmente, altamente sovvertiti dalla costante presenza del mezzo informatico e social che ormai viaggia molto più velocemente della mente stessa della persona.

Viviamo sotto l’obbligatorietà di essere parlanti, pur quando non abbiamo un contenuto da esprimere.

“La solitudine è per me una fonte di guarigione che rende la mia vita degna di essere vissuta. Il parlare è spesso un tormento per me e ho bisogno di molti giorni di silenzio per ricoverarmi dalla futilità delle parole”.

Carl Gustav Jung

Dott.ssa Giuseppina Simona Di Maio,
Psicologa Clinica, Albo degli Psicologi della Campania n.9767
Esperta in Disagio giovanile, devianza sociale e comportamenti a rischio,
Esperta in malessere adolescenziale e adolescenza
Psicologa scolastica,
Svolge attività di prevenzione, diagnosi e cura per la persona, i gruppi, gli organismi sociali e la comunità

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