Proseguii verso l’interno, superai un ponticello, e mi imbattei in un edificio abbandonato: un ex mulino, diceva un cartello. Più avanti, una vecchia peschiera trasformata in laghetto sportivo. Lungo la strada, iniziarono a comparire ville antiche, qualcuna crollata, altre inglobate in nuove costruzioni. Le barchesse, quelle lunghe arcate bianche, raccontavano di un tempo agricolo solido, quasi nobile.
Ma ai margini delle strade, tra l’erba alta, notai rifiuti, plastica, detriti. Il paesaggio era bellissimo, ma ferito. Come se la bellezza, da sola, non bastasse più a proteggersi.
Osservai i fossi e le paratoie. Notai piccoli interramenti, ostacoli che rallentavano il flusso. Le alghe cresciute per eccesso di fertilizzanti intasavano i fondali. Mi colpì quanto sarebbe bastato poco: uno sfalcio, una cura ordinaria. Eppure quel “poco” sembrava dimenticato.
Pensai allora alla trasformazione dei corsi d’acqua in canali, alla cementificazione che riduceva la complessità del paesaggio. I fiumi non trattenevano più l’acqua, ma la spedivano via in fretta. E la terra, ormai impermeabile, non sapeva più assorbire.
La sicurezza idraulica, mi dissi, non si misura solo in metri cubi al secondo. Ma in memoria, responsabilità, equilibrio.
Attraversai un boschetto e mi ritrovai in una radura con muretti a secco. Lì sorgeva una vecchia scuola. La facciata era scrostata, ma ancora portava una scritta: una data di fine Ottocento. Le finestre rotte lasciavano intravedere sedie, banchi, una lavagna nera.
Entrai. L’interno era quieto, fatto di luce obliqua e polvere. In un’aula trovai un libro, aperto su un leggio. Mi avvicinai. Il titolo era lungo, affascinante: “Il viaggio di Giovan Leone…, raccolto da Giovanni Battista Ramusio”.
Sfogliandolo, una pagina si staccò. C’erano annotazioni: «Ramusio visse qui vicino…» Sentii una strana vertigine. Come se tutto il cammino avesse condotto fin lì, senza che io lo sapessi.
Uscii dalla scuola e camminai in direzione della statale Valsugana . Le case cominciavano a farsi più fitte, ma il pensiero di Ramusio mi accompagnava. Camminare lungo questo fiume mi sembrava ora una forma di geografia interiore: una mappa disegnata tra le ville, le rovine, i papaveri e le parole dimenticate.
Passai accanto a una villa sepolta dalla vegetazione. Un cartello diceva che era appartenuta a una famiglia veneziana. Forse anche Ramusio, nei suoi anni giovanili, camminò qui. Forse guardò lo stesso paesaggio.
Mi tornò alla mente l’università, quando scoprii per la prima volta Ramusio studiando Aldo Manuzio. Ricordai la marca tipografica: il delfino avvolto all’ancora. L’Accademia Aldina. Pietro Bembo, Girolamo Fracastoro e, appunto, Ramusio: uomini che cercavano di custodire il sapere e di renderlo leggibile al tempo futuro.
Capivo ora che quella ricerca — anche la mia — non era solo un gesto intellettuale. Era un modo per non dimenticare. Per opporsi all’oblio con la cura.
Mi fermai davanti a un campo di papaveri rossi. Il vento li faceva oscillare come in una danza. Pensai ancora una volta alla fragilità, al breve splendore. Pensai alla damigella, al fiume, al libro lasciato su un leggio, come un messaggio dimenticato in una bottiglia.
Forse ogni cammino, se davvero lo si ascolta, diventa racconto. E il racconto, a sua volta, diventa mappa. Non per trovare una meta, ma per imparare a vedere.
Non cercavo un libro. Né un nome. Né una lezione. Ma qualcosa, dentro quella mattina, dentro quei passi lenti, mi chiamò a guardare meglio. La natura, la storia, la vita segreta delle acque e degli insetti. Tutto si mise in movimento. E io mi lasciai portare.
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