Scendemmo in fretta il ripido costone, fino ad arrivare alla pianura che portava al mare. Sembravamo daini impazienti di rinascere dalle carni riciclate, capaci di scaricare a terra vagoni di energia e saltare siepi di malinconia. Le ginestre costellavano come gialli satelliti il verde della flora. L’odore della salsedine ammaliava il vento. Tutto intorno si respirava l’ordine e il silenzio. Le teste dei cedri si piegavano, assecondando la vocazione del libeccio. La strada era un ammasso di ciottoli e polvere rossa. Le scarpe rotolavano giù come zoccoli, lasciando impronte che erano stendardi di vita. Un uomo e una donna ci guardavano da dietro a una finestra, sussurrando un addio. Le rondini ascendevano al cielo in verticale, poi con virate vigorose spingevano l’aria fino ad altre dimensioni. Il mare ci aspettava, freddo e irrequieto, come una zattera sconnessa, precipitoso e edulcorato. La luna, già alta allo zenit, era la madre delle creature, che ad essa inviavano canti e preghiere. Le nostre mani congiunte erano il mantra di fine giornata. Avevamo bisogno del mare, della salsedine e dell’atmosfera rarefatta di certi viaggi. Per perdere il controllo, non bastava più l’uso della ragione. Ora erano gli ormoni a dettare legge e ragione, e, noi, in debito verso l’universo, restavamo così, con le mani congiunte e le chiome scompigliate. I sensi di colpa ci aiutavano a ragione, stringendo ancor più le mani fino a diventare un’unica contrazione che risuonava con il battito del cuore. Siamo partiti, infine, su quel mare e abbiamo intrapreso il viaggio verso l’ignoto.

“I migranti di Ganden” nell’avvolgente interpretazione dell’autore Giuseppe Tecce

[ SiteLink : GiuseppeTecce.com ]

[ Immagine in evidenza: Dipinto di Alberto Zamboni ]

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