Christiane Hoffmann è una giornalista tedesca, è nata nel 1967, è figlia di due rifugiati: la sua famiglia paterna proviene dalla Slesia, quella materna dalla Prussia orientale. La Slesia oggi fa parte della Polonia, la Prussia orientale è divisa tra Russia, Polonia e Lituania: un tempo queste due regioni appartenevano alla Germania. Dalla Slesia, e precisamente dalla cittadina di Rosenthal, che oggi si chiama Różyna, il 22 gennaio 1945, quasi alla fine della Seconda guerra mondiale, una carovana di circa trecento persone, con circa 50 carri, si mette in cammino verso Ovest: a Rosenthal stanno per arrivare i russi, che metteranno la città a ferro e fuoco. Tra gli sfollati c’è la famiglia di Christiane: la nonna, la bisnonna, lo zio, il padre, che all’epoca è un bambino di nove anni. La carovana percorre in un mese e mezzo 550 chilometri, arrivando a Klinghart il 3 marzo.
Il 22 gennaio 2020 Christiane decide di ripercorrere il cammino compiuto tanti anni prima dai profughi: da suo padre non ha saputo molto di quel viaggio epico, ma una compagna di viaggio ha scritto un diario grazie al quale Christiane riesce a ricostruire l’itinerario e le tappe. Sulle orme di suo padre bambino percorre a sua volta i 550 chilometri, ostinatamente a piedi, nel freddo e nel vento dell’inverno, nel fango delle paludi e tra le bestie nei boschi. L’esplosione della pandemia di covid la costringe a interrompere il cammino, che riprenderà qualche mese dopo, all’inizio dell’estate.
Ciò che non ricordiamo racconta questo doppio itinerario, la fuga del padre e il pellegrinaggio della figlia, compiuti a distanza di 75 anni l’uno dall’altro.
Fa una certa impressione vedere la fine della Seconda guerra mondiale dal punto di vista di un gruppo di tedeschi in fuga: nella loro piccola città, nella porzione di territorio da cui sono dovuti fuggire, non si era mai combattuto, e l’arrivo dei russi è visto come la calata degli orchi, dei feroci nemici dai quali scappare. In qualche modo siamo portati a solidarizzare con quella piccola carovana di sventurati, cacciati dalle loro case e costretti a rifugiarsi in una regione sconosciuta, senza immaginare che a Rosenthal, alla loro Heimat, non faranno più ritorno. La guerra fa anche questo: costringe la gente a lasciare la sua casa, a perdere per sempre la sua patria; alla fine della guerra, come alla fine di tutte le guerre, il territorio europeo fu in gran parte ridisegnato, i confini furono spostati, chi perdeva una regione ne acquistava un’altra che non aveva mai sentito come propria, e immense masse umane dovettero spostarsi, chi verso est chi verso ovest, in un assurdo gioco dell’oca.
Il racconto del viaggio della carovana si alterna nel libro a quello di Christiane, che visita luoghi, incontra persone, entra nei musei nel tentativo di dare un senso a quanto è accaduto. Lungo il percorso e nelle conversazioni con le persone incontrate affiorano molte questioni. Una è quella dei nomi: nel passaggio da una nazione all’altra città e paesi hanno cambiato nome, da tedesco a polacco, a ceco, a russo. Alcuni hanno avuto in passato anche un nome yiddish. E indubbiamente il cambiamento del nome è indicativo del “passaggio di proprietà” e anche della negazione del passato. Non esiste più la Rosenthal abbandonata dal padre di Christiane all’età di nove anni: ora c’è Różyna, e lo stesso vale per molte altre località, anche per città grandi e importanti.
Un altro tema molto sentito è quello del rapporto tra tedeschi e polacchi. Non c’è, ancora oggi, un buon rapporto tra le due popolazioni. I tedeschi portano ancora sulle spalle la responsabilità della guerra e del genocidio, hanno riflettuto sul loro passato, hanno fatto ammenda, ma questo agli occhi dei polacchi non li rende migliori: sia perché così facendo si sono lavati la coscienza e hanno preso posto dalla parte dei buoni, sia perché non riconoscono tra le vittime della loro aggressività i polacchi stessi, che anzi in certi casi vengono ritenuti antisemiti e collaboratori della Shoah, mentre loro, dal canto loro, si sentono vittime di sterminio e innocenti di qualsiasi azione nei confronti degli ebrei perseguitati da Hitler. La Polonia ha addirittura varato una legge in base alla quale non è consentito accusarla di connivenza con i nazisti nel corso della Seconda guerra mondiale e di collaborazione alla Shoah. Perciò tutti i crimini di guerra di cui una parte dei cittadini polacchi si è macchiata, l’antisemitismo che hanno manifestato, la collaborazione al genocidio, non sono più nominabili, non esistono più. La fedina penale dei polacchi è immacolata. I tedeschi d’altronde si sono redenti…
È comprensibile che dopo tanti anni nessuno voglia più sentire parlare di colpe e responsabilità: del resto, tedeschi e polacchi di oggi non sono certo le stesse persone che hanno causato, subito e vissuto la guerra con tutti i suoi orrori. Mi sembra che da questo avvincente reportage si possa ricavare un ammonimento, sulla totale assurdità, follia e irrazionalità delle guerre, che non solo seminano morte e distruzione mentre accadono, ma si portano dietro lunghi strascichi di sofferenza, senso di colpa, bisogno di rimozione, e che stravolgono la vita di milioni di persone per intere generazioni.





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