Bambina mia,

Scrivo questa lettera – no, diario no, testimonianza in diretta – mentre tu dormi, raggomitolata come un’ipotesi ancora in cerca di una sua dimostrazione, con il tuo fiato minuscolo che fa muovere le tende anche se le finestre sono chiuse. Hai cinque mesi oggi. Cinque mesi. Lo dico e lo ripeto come si ripete una parola strana fino a svuotarla: cinque mesi, cinque mesi, cinque mesi. Sei ancora così nuova che a volte mi viene da chiedermi se tu sia davvero qui o se io sia solo troppo stanca per accorgermi di star sognando.

O forse, e questa è l’ipotesi più plausibile, sono semplicemente intrappolata in quello che alcuni filosofi chiamerebbero “iper-presente affettivo” dove ogni momento si consuma nell’urgenza del prossimo, senza mai sedimentarsi in memoria.

Ti scrivo con una penna blu su un quaderno che non era destinato a te – era il mio diario pre-parto, dove avevo annotato le contrazioni false, le vere, le liste di cose da comprare, gli orari del corso preparto, il nome del pediatra consigliato da quella mamma-angelica del gruppo Facebook “Genitori senza filtri – ma poi sei arrivata tu, con la forza gravitazionale di un’intera galassia in fasce, e da allora ogni foglio bianco è tuo.

E quindi te lo dico ora, con la voce di chi non dorme da tre notti e ha appena finito di stendere il secondo bucato del giorno:

Sarò l’Atlante della tua Calipso.

A me il peso, a te il mondo.

I

Nel mito, Atlante è condannato a reggere il cielo sulle spalle per l’eternità. È il simbolo della pena che non si negozia, del peso che non si discute. È immobilità sotto il carico, è fermezza in un mondo che crolla.

Mentre Calipso è l’isola e la donna e il canto. È il rifugio e la tentazione, ma anche la prigionia dolce. Trattiene Ulisse per anni, ma non con la forza: con la possibilità dell’oblio. Con la leggerezza.

Tu, figlia mia, sei Calipso non perché tu sia trappola, ma perché sei l’isola che non può essere toccata dal peso del cielo.

E io, che non sono né dea né titano, ma solo una donna di trent’anni con le occhiaie scavate come canyon carsici, mi offro come Atlante volontario, per tenere in alto un mondo che possa ancora sembrarti abitabile.

Nota a piè di pagina 1:

A dire il vero, l’immagine di me come Atlante è un po’ pretenziosa. Non ho le spalle larghe. Ho le scapole appuntite, una scoliosi lieve, e un principio di ernia lombare diagnosticata dal fisioterapista dell’ASL che mi ha detto, testuali parole, di “stare attenta con le posture durante l’allattamento”. Come se si potesse allattare in una postura ideale quando una creatura urlante ti tira i capelli con una mano e con l’altra ti graffia il seno mentre cerca il capezzolo.

Vuoi un mondo senza fratture. O almeno, un mondo dove le fratture siano trasparenti, visibili, narrabili, e non occultate sotto parole come “flessibilità”, “resilienza”, “adattabilità” che ci vomitano addosso in ogni curriculum, colloquio, modulo INPS.

Ma sai che c’è? Io non voglio essere resiliente. Non voglio piegarmi per poi rialzarmi come se niente fosse. Voglio che tu non debba piegarti mai.

Anche se questo significa che sarò io a spezzarmi.

II – Del pane, dei sogni e del respiro interrotto

Sai qual è la cosa più assurda, figlia mia?

Non è tanto il precariato cronico, né il fatto che io riesca a preparare contemporaneamente il biberon e una mail di lavoro (con oggetto: “urgentissimo”, sempre), mentre il tuo pianto in filodiffusione dal baby monitor è la mia nuova musica d’ambiente.

La cosa più assurda è che nonostante tutto questo, io continuo a crederci.

Sì, hai letto bene. Crederci.

Non so esattamente in cosa, ma c’è una fede instancabile che mi tiene in piedi. Non è religiosa. Non è ottimista. È qualcosa di più animalesco. Più da madre lupo che da madre Teresa. Una fede nella possibilità di lasciarti un frammento di mondo che non sia del tutto guasto.

E intanto faccio la spesa a orari improbabili per sfruttare gli sconti, riciclo l’acqua del bollitore per bagnare le piante (che muoiono lo stesso), compilo moduli online dove mi chiedono se sono “disposta a trasferirmi” per 1.200 euro lordi e un contratto a progetto che dura meno della tua colica gassosa media.

Nota a piè di pagina 2:

Ho scoperto che esistono davvero le “coliche del pianto”, una sindrome in cui i bambini piangono senza una causa apparente, e i genitori devono resistere ore, notti, settimane.

È un po’ come il mercato del lavoro: il disagio è reale, ma nessuno riesce a capire da dove arrivi. E non passa con il tempo, ma solo con l’adattamento che non è guarigione, ma assuefazione al caos.

A volte, mentre ti tengo in braccio e il tuo peso si fa liquido contro il mio petto – quella pressione sottile ma inesorabile, come la goccia che scava la pietra – mi rendo conto che sto trattenendo il fiato.

Letteralmente.

Smetto di respirare per qualche secondo, quasi senza accorgermene. Come se il mio corpo volesse dimostrarti che può reggere anche il vuoto.

Come Atlante.

Che non regge la terra, ma il cielo. L’invisibile. L’insostenibile.

Tu dormi.

Io non respiro.

Mi chiedo se lo farai anche tu un giorno. Se anche tu ti troverai, magari a trent’anni e sei mesi, a trattenere il fiato per non far crollare tutto. Per non far rumore. Per non disturbare. Per non perdere l’equilibrio.

Spero di no.

Eppure, il peso che ti sto caricando addosso è comunque reale, anche se cerco di risparmiartelo. Il mondo lo sentirai. Sarà nei muri scrostati delle scuole pubbliche, nelle liste d’attesa dell’ASL, nei curricula spediti senza risposta, nei sogni che dovrai adattare alle circostanze, come si adatta un vestito usato al corpo che non l’ha mai scelto.

Nota a piè di pagina 3:

Tu non lo sai ancora, ma la parola sogno è diventata un codice del marketing. I concorsi si chiamano “Realizza il tuo sogno”, gli stage non retribuiti si vendono come “opportunità da sogno”, e perfino le università parlano di “percorso verso il tuo sogno professionale”. Ma nessuno ti dice che il sogno richiede denaro, tempo, privilegi e rete sociale. E che spesso, se sei donna, madre, o non hai il cognome giusto, il tuo sogno è quello degli altri.

Questa lettera che ti scrivo non è una promessa che ti salverò. Non sono una dea.

Non so costruire un futuro.

Ma so reggere il presente.

E se il presente pesa come il cielo, pazienza. Lo tengo io.

III – Elogio del compromesso imperfetto

A volte sogno una versione alternativa della maternità. Una timeline parallela in cui ho una carriera solida, uno stipendio stabile, una casa senza muffa ai soffitti, e magari anche un compagno che sa usare la lavatrice senza scrivermi prima “posso?”.

In quella timeline, ti porto a scuola con calma, poi vado a lavorare senza il senso di colpa di averti lasciata a qualcun altro.

In quella timeline, facciamo merenda con calma, ridiamo, leggiamo libri illustrati su animali della savana.

In quella timeline, non mi sveglio con l’ansia che il mio conto vada in rosso se il riscaldamento parte un giorno prima del previsto.

Ma eccoci qui, timeline reale, timeline imperfetta.

E sai una cosa?

Ti amo lo stesso. Forse di più.

Perché il compromesso mi ha insegnato una forma d’amore che non è romantica, né poetica. È ruvida. È pratica. È quella che sa che l’amore non basta, ma serve.

Serve per non mollare la carrozzina mentre scendo scale senza ascensore.

Serve per convincermi che anche se non ti posso dare tutto, posso darti qualcosa di mio. Il mio tempo. Le mie parole. Le mie mani. La mia voce.

Nota a piè di pagina 4:

L’altra notte ti ho cantato una ninna nanna inventata sul momento, in rima, con strofe traballanti. Non era bella. Ma ti ha fatto dormire. Mi domando se tra trent’anni te la ricorderai, o se resterà solo nelle mie sinapsi, come un’opera d’arte che si autodistrugge dopo aver assolto la sua funzione.

Vuoi sapere un segreto?

Io non ti sto crescendo per il mondo com’è.

Ti sto crescendo per il mondo come dovrebbe essere.

E anche se forse non lo sarà mai, almeno tu saprai che tua madre ci ha provato. Che ha resistito. Che ha amato. Che ha tenuto su il cielo per lasciarti spazio per correre.

IV – Di come si insegna la leggerezza senza negare la gravità

Ti guardo dormire – di nuovo, sempre, ancora – e penso che il tuo sonno è l’unico spazio sacro rimasto in questa casa ed è così leggero.

Non nel senso che è superficiale, o inconsistente.

È leggero come lo sono le cose che non sanno ancora cosa significhi cadere.

Nota a piè di pagina 5:

Calvino – che una volta era di moda citare e ora è finito nei meme per studenti fuoricorso – diceva, in realtà è un falso letterario ma la frase ci serve, che la leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, senza macigni sul cuore. Non so se ho mai saputo farlo, io. Ma so che tu, almeno per ora, ci riesci. E questo basta. Per adesso.

Hai cinque mesi e non sai cos’è la gravità sociale.

Non sai che certe famiglie vanno più lente perché devono trainare dietro generazioni di assenze, debiti, traumi, silenzi, rinunce.

Non sai che il mondo non parte uguale per tutti, e che qualcuno nasce con le gambe già stanche.

Tu no.

Tu sei una nuvola che ancora non sa che può piovere.

E io, che sono già tutta acqua, terra e fango, cerco di non schiacciarti.

Cerco di insegnarti la leggerezza, senza mentirti sulla gravità.

E allora facciamo così, figlia mia.

Ti insegnerò a:

Ridere anche quando c’è poco da ridere, ma senza fare finta che va tutto bene. Camminare leggera nei luoghi pesanti, ma senza diventare indifferente. Dire di no, quando tutti ti chiederanno di essere flessibile, multitasking, docile e “comprensiva”. Amare anche chi non lo merita, ma solo se non ti costa troppo.

Nota a piè di pagina 6:

Un giorno parleremo del confine tra empatia e masochismo. Della differenza tra generosità e annullamento. Della trappola di voler “salvare” chi non vuole essere salvato. Ma questo, forse, te lo spiegherà una delusione. O un’amica più lucida di me.

Ti insegnerò che la leggerezza è un atto di resistenza.

In un mondo che pesa, chi resta leggero non è distratto: è coraggioso.

Tu mi sorridi con le gengive nude e i tuoi occhi enormi sembrano contenere un’ignoranza felice.

Ed è perfetto così.

Non sapere è il tuo privilegio temporaneo.

Il mio compito è difenderlo finché posso.

E poi—quando sarà il momento—insegnarti a restare un po’ leggera, anche quando inizierai a sentire il peso.

C’è una frase che ho letto una volta su un muro scrostato della stazione Termini, scritta con un pennarello indeciso:

“La felicità è un attimo senza colpa.”

All’epoca l’ho fotografata.

Ora mi accorgo che tutta questa maternità è un tentativo di costruire per te quell’attimo.

Un istante in cui potrai essere felice senza dover chiedere scusa a nessuno.

E se per farlo devo spezzarmi un po’, va bene così.

Io sono Atlante, ricordi?

Reggo il cielo per lasciarti guardare le stelle.

E se ogni tanto lo sento crollare un po’—non dirlo a nessuno—piango sotto il peso. Ma non ti mollo.

V. Epilogo: Lettera per quando sarai più grande

Figlia mia,

se mai un giorno ti troverai, come me adesso,

seduta sul bordo di un letto disfatto,

con un’ombra sotto ogni occhio e un pensiero per ogni ruga,

se mai stringerai tra le braccia qualcosa di troppo piccolo per capire,

ma troppo grande per lasciarti andare,

ricorda questo:

Non tutto ciò che pesa fa male.

Non tutto ciò che è leggero è fragile.

E tu sei stata entrambe le cose:

il peso che mi ha tenuta viva,

la leggerezza che mi ha impedito di affondare.

Ho passato anni a reggere cose che nessuno vedeva.

Liste della spesa, pagine bianche, curriculum ignorati,

notte dopo notte di occhi aperti e latte scaldato al buio,

pensieri come debiti da saldare con me stessa.

Eppure, in tutto questo, non ho mai smesso di credere che tu meritassi il mondo, anche se io non avevo niente da darti.

Così ho fatto come Atlante.

Mi sono piegata sotto il cielo.

Ma non per punizione, no.

Per amore.

A me la fatica, a te il mondo.

L’ho detto mille volte, senza sapere se davvero funzionasse.

Ma se oggi sei qui,

se oggi riesci a ridere senza motivo,

a fidarti di qualcuno,

a lasciare che il vento ti spettini senza paura di perderti,

forse qualcosa ha funzionato davvero.

E se un giorno ti troverai a reggere anche tu il cielo per qualcun altro,

se sentirai la schiena cedere e il cuore graffiato dal silenzio,

ricorda:

non c’è niente di più umano,

e niente di più sacro.

Cammina, Calipso mia.

Cammina leggera.

Lascia che sia io la tua roccia,

anche se col tempo diventerà polvere.

Porta nel mondo la parte di me che ha sognato per entrambe.

E se mai ti sentirai persa,

ricorda dove tutto è cominciato:

tra le mie braccia,

mentre dormivi,

e il cielo intero pesava solo su di me.


[ SiteLink : Volevo fare l’astronauta ]

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