Il sole si levava lento, tingendo di rosa e ocra le colline dolci della Val di Reno, proprio lì dove la terra emiliana, generosa e grassa, incontra l’aria frizzante che scende dagli Appennini. Non c’era fretta nella grande casa colonica della nonna Elvira, solo il ritmo ancestrale della vita contadina.

La cucina era il cuore pulsante. Non un luogo asettico, ma un santuario rustico dove il profumo del legno che ardeva nel camino si mescolava all’odore inebriante del brodo messo su all’alba. Erano giorni di festa, o forse era semplicemente un giorno in cui la famiglia decideva che meritava un abbraccio speciale. E per Elvira, l’abbraccio aveva sempre la forma di una pasta ripiena.

Il tavolo di legno massiccio, segnato da generazioni di battaglie culinarie e risate a crepapelle, era il palcoscenico. Le luci erano le lampade a petrolio e i raggi di sole che entravano dalle finestre, e le attrici principali erano lei, Elvira, e le sue figlie, Ada e Lucia. Indossavano grembiuli inamidati, le mani forti e sapienti, pronte a trasformare semplici doni della terra in pura magia.

Il Rito della Sfoglia

Il rito cominciava con la farina, versata a fontana sulla spianatoia come un piccolo monte innevato. Le uova fresche, dal tuorlo arancione intenso quasi a gridare al mondo la salute delle galline, venivano rotte al centro. E lì, in quel momento, il tempo si fermava.

Le mani di Elvira lavoravano la pasta, una danza ritmica, quasi una preghiera. La pasta, all’inizio ribelle e appiccicosa, a poco a poco si addomesticava, diventando liscia e dorata, elastica come la pelle di un bambino. Era l’anima del tortellino, la tela su cui dipingere il sapore.

«Tira, tira la sfoglia, Ada!» diceva Elvira, la voce bassa e ferma.

E Ada, con l’energia della gioventù, impugnava il mattarello lungo quasi quanto lei. Era un lavoro di fatica e precisione. La sfoglia doveva essere sottile, velata, quasi trasparente, per poterne intravedere l’ombra del ripieno, ma non così fragile da rompersi. Ascoltare il suono del mattarello che scivolava sul legno, un sordo thump-thump, era la colonna sonora della mattinata.

Il Segreto del Ripieno e la Forma Divina

Nel frattempo, il ripieno riposava, un tesoro custodito: lombo di maiale macinato, prosciutto crudo, mortadella di prima scelta, un po’ di noce moscata che pizzicava il naso, e il Parmigiano Reggiano stagionato, quello che sapeva di stalla, di fieno e di tempo. Tutto amalgamato in un profumo intenso e carnale.

Una volta tirata la sfoglia, iniziava la parte meditativa: il taglio. Piccoli quadrati, tutti uguali, disposti come mattonelle preziose. Poi il tocco finale, il più intimo: il pizzico di ripieno al centro di ogni quadrato.

Lucia, la più giovane, aveva il compito della chiusura. Prendeva il quadratino, lo piegava a triangolo, sigillando i bordi con la punta delle dita bagnate di albume, e poi, con un movimento svelto, lo avvolgeva attorno al mignolo. Il risultato era quella forma perfetta, l’ombelico di Venere, il tortellino.

«Piccoli come li faceva mia madre, Lucia. Non deve essere una noce, ma un bottone!»

Ore passate a chiacchierare, a spettegolare sulle novità del paese, a cantare vecchie canzoni, mentre le mani lavoravano in automatico. La convivialità non era un contorno, ma l’ingrediente segreto. Quei tortellini non erano fatti solo di carne e pasta, erano fatti di voci, risate, affetto e la memoria di chi li aveva fatti prima.

La Tavola: Brodo, Lambrusco e Fede

Quando il grande vassoio di legno era colmo, i tortellini disposti come un esercito dorato in attesa, il tramonto era già vicino. E a quel punto, i contadini, gli uomini della famiglia, tornavano dai campi, con la fame che mordeva e le guance arrossate dal vento.

Il momento sacro arrivava: il brodo. Non un brodo qualsiasi, ma un elisir scuro e saporito, fatto con la gallina vecchia, il manzo e il midollo, lasciato sobbollire per ore in un profumo che riempiva ogni stanza.

I tortellini venivano tuffati, pochi alla volta, per non raffreddare il brodo. E in un attimo, affioravano, gonfi e lucidi, pronti.

Tutti si sedevano al tavolo, gomito a gomito: nonni, zii, bambini, vicini di casa. Nessuna formalità, solo la gioia di ritrovarsi. Elvira serviva le porzioni, fumanti, un profumo di burro e Parmigiano che si sprigionava dal piatto.

L’Abbraccio Caldo del Brodo

Il primo cucchiaio era un momento di silenzio reverente. L’esplosione del ripieno sapido contro la delicatezza della pasta, l’abbraccio caldo del brodo. Era il sapore dell’Emilia, il sapore di casa, la ricompensa per un anno di duro lavoro.

Poi, il silenzio si rompeva in un’esplosione di voci.

«Buoni, Elvira, sono migliori di quelli dell’anno scorso!» esclamava lo zio Guido, pulendosi il baffo.

«È il brodo che fa la differenza!» replicava la nonna, fiera e sorridente.

Accanto a ogni piatto, c’era la tazza di ceramica riempita di Lambrusco scuro, frizzante, che faceva il solletico al naso. Il vino contadino, onesto e allegro, sgrassava il palato e preparava per il boccone successivo. Un sorso di Lambrusco, una cucchiaiata di tortellini, un’altra risata.

La cena non era solo un pasto, ma un rito di appartenenza. I bambini imparavano le storie degli avi, le donne si scambiavano i segreti per il giorno dopo, e gli uomini discutevano dei raccolti.

Quando le scodelle erano vuote, restava sul fondo solo l’oro del Parmigiano fuso nel brodo. E sui volti di tutti, la luce soddisfatta e stanca di chi sa che il vero lusso non si compra, ma si impasta, si cucina e si condivide in una cucina dove il calore umano è l’ingrediente più prezioso.


[ SiteLink : Sogni e poesie di una donna qualunque ]

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