Angela Anzalone riscrive la lezione dell’archeologo Marinatos: ogni scavo è un gesto di emancipazione.

In “Un amore senza fine. Kalliste(i), la bellissima” – Pagine edizioni- Angela Anzalone firma un’opera che si muove lungo una soglia sottile, dove la narrazione poetica si apre alla riflessione filosofica e l’indagine archeologica diviene atto d’amore. È un libro che non racconta soltanto una storia, ma ricompone le stratificazioni del tempo, trasformando il mito in una chiave di lettura del presente e del sé.
Il viaggio dell’autrice a Santorini costituisce il cuore pulsante dell’opera: non un semplice scenario, ma una vera e propria esperienza iniziatica. L’antica città di Akrotiri, sepolta dalla cenere e riportata alla luce dagli scavi, diventa specchio del lavoro interiore che la scrittura compie: scavare, portare alla luce, ridare forma a ciò che la storia ha sepolto.
È in questo contesto che si innesta la figura di Spyridon Marinatos, l’archeologo che scoprì e dedicò la vita a Akrotiri, fino a morirvi tragicamente nel 1974. Per Angela Anzalone, Marinatos non è solo un riferimento scientifico: è una presenza quasi amorosa, un simbolo vivente della dedizione assoluta al sapere. Il suo amore per la verità archeologica diventa, nel testo, specchio e metafora dell’amore umano — un eros della conoscenza che si consuma nel gesto della ricerca.
Ma l’autrice non idealizza il mito dello studioso senza consapevolezza storica: al contrario, ne legge la figura alla luce del dramma politico e culturale della Grecia di quegli anni. Marinatos lavorava nel pieno della dittatura dei colonnelli (1967–1974), un periodo in cui la cultura era chiamata a resistere in silenzio, tra censure e paure. Il contrasto tra l’atto liberatorio dello scavo — riportare alla luce la verità — e la realtà di un regime che imponeva l’oscuramento delle coscienze, acquista nel romanzo un valore simbolico fortissimo.
Angela Anzalone trasforma questa tensione in una meditazione sulla libertà e sulla verità. L’archeologia diventa un gesto politico: il sottrarre alla terra ciò che è stato nascosto, il ridare parola alle rovine, si fa metafora dell’emancipazione dell’essere umano dalle forme di oppressione. È una scrittura che “scava” anche nel Novecento, rievocando — in filigrana — gli anni Settanta italiani, epoca di svolte e rivoluzioni civili: il referendum sul divorzio (1974), la legge Basaglia (1978), le prime conquiste sui diritti delle donne e sull’aborto.
In questo intreccio tra Grecia e Italia, mito e storia, l’autrice ci offre una lettura politica dell’amore: amare significa riconoscere, restituire, liberare. Così come lo scavo archeologico libera la memoria sepolta, l’amore autentico libera la vita dal peso dell’oblio. Marinatos, amato e idealizzato nella sua dedizione, diventa per Anzalone l’immagine dell’uomo che unisce eros e conoscenza, rigore e sacrificio, come un moderno Ulisse che muore inseguendo la verità.
La passione dell’autrice per l’archeologia è dunque anche passione per la giustizia del tempo. Le pietre di Akrotiri parlano non solo di un’antica civiltà, ma del nostro bisogno di senso, di libertà, di bellezza. Ogni frammento è una domanda rivolta all’oggi, ogni vaso ricomposto è un atto di fiducia nel futuro. E come il mito di Kalliste, la “più bella”, che si sacrifica per amore del suo popolo, anche Marinatos — e in filigrana, la stessa autrice — incarnano l’idea che la conoscenza e la bellezza possano essere forme di resistenza contro la barbarie.
La prosa di Angela Anzalone si nutre di filosofia e di luce mediterranea. La sua lingua è colta e sensuale, visionaria e precisa, e ricorda quella “trasparenza calda” che unisce la lirica e il saggio, la memoria e la carne del mondo. Ogni pagina è un frammento che rinvia all’intero, ogni immagine è un atto di fede nella possibilità che la parola, come l’archeologia, possa ancora salvare.
Un amore senza fine. Kalliste(i), la bellissima è dunque un’opera totale: romanzo, mito, saggio e testimonianza. Nelle sue profondità si intrecciano eros e logos, poesia e politica, la Grecia classica e l’Europa moderna, in un continuo dialogo tra la bellezza che fu e quella che ancora ci attende.
Alla fine, ciò che rimane è la consapevolezza che l’amore, come la verità, è un lavoro di scavo: non si conquista in superficie, ma nella profondità del tempo. E Angela Anzalone, con la sua voce intensa e sapiente, ci insegna che ogni ricerca autentica — dell’archeologo, del poeta, del pensatore — è sempre un atto d’amore.

Rosa Bianco, nata a Napoli nel 1965, è insegnante, critica letteraria e giornalista. Da sempre dedita alla ricerca culturale e al dialogo tra pensiero e umanità, ha condotto studi approfonditi sulla libertà di coscienza, intesa come spazio privilegiato di incontro con l’altro. Relatrice e moderatrice in convegni culturali, letterari, filosofici, storici e politici, caratterizzati da un elevato profilo qualitativo, presenta libri, progetta e realizza eventi, mostre e rassegne, distinguendosi per un approccio insieme rigoroso e appassionato all’esegesi e all’approfondimento. Con il suo lavoro, intreccia riflessione e divulgazione, contribuendo in modo significativo a mantenere viva la dimensione pubblica del pensiero critico.
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