Di Teresio Bianchessi

Nelle afose giornate estive, le fanciulle in fiore della “Recherche” di Proust, trovano riparo sotto i castagni, alberi che oltre ad assicurare frescura lasciano che il sole filtri fra le loro ricciolute fronde, per pittorici giochi di luci e ombre.

Immagino il rifugio delle ragazze in fondo al parco di un’antica e nobile dimora: pochi castagni a definire un angolo romantico ed esclusivo.

I castagni dei monti, mi racconta l’amico Pinuccio, certo che offrivano riparo dal solleone estivo, ma erano alberi che, ripagando sudore e fatica, hanno garantito sostentamento a intere generazioni.


Il castagneto

Intanto dimensioni e collocazione erano ben diverse: decine e decine erano i maestosi alberi che formavano il castagneto ed erano abbarbicati lassù in alto sui monti, raggiungibili dopo ore di cammino. Erano boschi che dovevano essere manutenuti con cura, ripuliti dalle foglie secche utilizzate, prima per il letto degli animali, e successivamente come concime per prati ed orti. A primavera si procedeva alla potatura levando rami secchi e superflui e il taglio era medicato con il mastice affinché non penetrassero insetti che potevano trasmettere malattie, ed era questa un’operazione rischiosa e faticosa vista la dimensione di questi alberi secolari.

Certo è che un bosco così ben tenuto garantiva poi un buon raccolto e quest’albero, comune sui monti come il ciliegio, autonomamente e generosamente, nel periodo che va da ottobre e sino ai primi fiocchi di neve, lasciava cadere i suoi ricciuti frutti.
E’ il vento il suo operoso e provvidenziale operaio e sotto le sue quotidiane folate, preavvisati da un sibilo, copiosi ricci piovono e sbattono a terra rilasciando il contenuto.



La raccolta delle castagne la fanno prevalentemente le donne che indossano per l’occasione un grande grembiule a tasca; subito si raccolgono quelle che cadendo sono fuoriuscite, poi con una sorta di molla, tipo quella dei camini, si facevano schizzar fuori quelle rimaste nei ricci; allora non c’erano i guanti e con questo sistema si evitava di pungersi.

La raccolta durava un lungo periodo e la schiena era messa a dura prova, la sera inevitabilmente doleva. Anche i bambini aiutavano nella raccolta, a loro si forniva un cestello minuscolo detto “vuien” e una volta riempito correvano festanti dalla mamma a depositare il raccolto.


Il “vuien

Si trovavano in tanti nel bosco, si divertivano, giocavano, cantavano.
Le ultime castagne cadute e rimaste nel riccio, venivano rastrellate e ammucchiate affinché seccassero all’ultimo debole sole autunnale.



Adiacente al castagneto c’era il “teccio”, una mini casetta che disponeva di un soffitto formato da tanti rami distanziati di pochissimo fra di loro affinché potesse passare il calore senza far scivolare via i frutti; su quel soffitto si ammucchiavano e si seccavano le castagne.
Al di sotto, all’incirca a due metri dalle castagne, veniva acceso un fuoco tenuto basso, niente fiamma, bruciava lentamente e produceva braci e fumo.
Guai se le lingue di fuoco raggiungevano i marroni, questi diventavano rossi e finivano con l’avere un cattivo sapore.
Il soffitto poteva ospitare strati di castagne alti da un minimo di 20 cm sino a 50 cm e questo tappeto veniva periodicamente rivoltato per ottenere un risultato omogeneo.


Il “teccio”

Giornalmente doveva essere alimentato anche il fuoco con rami di castagno o altra legna secca caduta nel bosco.
Le persistenti braci venivano coperte con la scorza delle castagne ottenuta dalla battitura del raccolto precedente e tesoreggiate proprio per questo scopo.
Questa copertura garantiva il fuoco ideale e buon aroma al fumo.
Occorrevano 15 o 20 giorni per seccare uno strato di marroni di circa 20, 25 centimetri, ma se lo strato era più alto, intanto andavano girate più volte, e occorreva almeno un’altra buona settimana.
Finita l’operazione, una volta giudicate secche al punto giusto, le castagne venivano fatte scendere da una piccola botola presente nel soffitto, tipo quelle che nelle stalle alimentano il fieno alle mucche.
Il lavoro del “teccio” risultava certamente più faticoso per coloro che avevano il castagneto lontano dalla propria abitazione perché richiedeva, per raggiungerlo, lunghe ore giornaliere di cammino.

Le castagne sono finalmente secche, ora devono essere liberate dalla scorza e a questo punto occorre forza maschile, ed un sacco di iuta resistente detto “pistarezza”.


La “pistarezza”

Si mettono 5/6 kg di castagne e questo involucro viene sbattuto ripetutamente su un grande ceppo sempre presente vicino al seccatoio.
Attorno a questo grande tronco capitava che si radunassero anche più di 4 uomini che, con energia, ritmo e cadenza, alternavano violenti colpi senza mai colpirsi.



Questa impegnativa fase sbriciolava la scorza della castagna e la liberava dalle impurità e il risultato finale era che tante castagne candide uscivano dal sacco e passavano ora nei “valli”, ampie ceste basse, costruite con la corteccia del castagno, che venivano agitate con maestria per liberare i frutti dalla polvere.


Il “vallo”

Solo a quel punto i marroni venivano rovesciati su delle tavole provviste di rialzi laterali e sistemate in leggera pendenza in modo tale che le castagne potessero scivolare. Toccava sempre alle donne effettuare la cernita e dividere le rotte e le piccole dalle belle e tonde e queste, solo queste ultime, venivano messe nei sacchi, caricate sul “trazin”, il carretto, e portate a valle per la vendita.

In paese poi, a novembre, passavano dei mediatori per l’acquisto e i sacchi finivano ai mulini per ricavarne farina per castagnaccio e dolci.
Alla famiglia restavano quelle piccole e rotte ed era comunque dispensa preziosa, scorta che alimentava tutto l’anno e che, sopra tutto nei tristi periodi delle guerre, aveva rappresentato la sopravvivenza; le castagne secche, infatti, finivano sia la mattina che la sera, bollite nella scodella di latte.
Le caldarroste si cucinavano sia in forno che sulla piastra della stufa, non prima di aver inciso un bel taglietto che evita loro di scoppiare.



Si ha conoscenza, per conservarle fresche a lungo, di una tecnica, detta “novena” che consisteva nell’immergere per nove giorni di fila le castagne in acqua fresca. Sembra funzionasse.

Rimandano a teneri ricordi le “viette”, le vecchiette, le castagne conservate in un angolo del “teccio” ancora con la scorza che raggrinziva e che venivano tesoreggiate per le festività natalizie e servite come dolce.
Venivano messe in un pentolone coperte da uno strato di paglia pressato con un sasso affinché rimanessero e cuocessero nel fondo della pentola; se risalivano si squagliavano.

Oggi i boschi di castagne sono prevalentemente abbandonati, ma in tempi non lontani, per la raccolta salivano anche le ragazze dalla riviera e il loro lavoro veniva pagato in natura, tornavano tutte al mare con un bel sacchetto di castagne; di contro, le ragazze dei monti, lasciavano le loro valli per scendere in riviera per la raccolta delle olive; loro risalivano con qualche litro di olio vergine.



Di tutte queste fatiche, in città, in inverno, resta solo la voglia irrefrenabile delle caldarroste, servite a numero e a caro prezzo, come le ostriche.



2 risposte a “Quel passato da prezioso sostentamento, questo presente da costoso sfizio. La storia del duro lavoro sui monti per le castagne.”

  1. In poche precise parole la descrizione di un piccolo mondo antico……..

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