Ultima notte da poveri, di Fernando Aramburu, Guanda 2025, traduzione di Bruno Arpaia, pp. 240
Ultima notte da poveri è una raccolta di racconti brevi in cui Aramburu osserva scene dell’ordinario — passeggiate al parco, un acquisto bizzarro, un uomo caduto in strada, famiglie in attrito — e le trasforma in piccoli drammi o parabole morali. Le vicende oscillano tra ironia e malinconia, talvolta sfiorano il grottesco o l’assurdo, ma quasi sempre mostrano una tensione morale: personaggi di mezza età o anziani che si confrontano con la solitudine, la vergogna, l’invidia, la piccola violenza quotidiana.
Aramburu sceglie la forma del racconto breve — frammentaria per definizione — e la utilizza non come mera somma di tante storie indipendenti ma come una galleria di lampi tematici. I testi sono autonomi ma spesso risuonano l’uno con l’altro per immagini ricorrenti (cadute, oggetti inattesi, piccole occasioni di violenza morale) e per uno stesso atteggiamento morale dello sguardo: il narratore non spiega tutto, mostra e lascia al lettore la responsabilità di completare il giudizio.
Lo stile è essenziale, controllato, sobrio ma tagliente: Aramburu privilegia una prosa asciutta, volutamente contenuta, che spesso lascia intravedere — più che dichiarare — pulsioni e colpe. L’autore organizza i suoi racconti con una struttura visiva precisa: l’apertura di ogni storia è quasi cinematografica (un gesto, un oggetto, una situazione concreta), poi il ritmo rallenta, come un’inquadratura che stringe su un dettaglio morale. La punteggiatura breve e il lessico quotidiano creano un tono orale, ma sempre sotto controllo. Il lettore avverte la voce narrante come uno sguardo che non giudica ma registra.
C’è un uso frequente dell’ironia malinconica, alternata a guizzi di humour nero; molte situazioni sono descritte con lucidità quasi clinica, e il peso emotivo nasce dall’accostamento tra quotidiano banale e esito drammatico.
In termini formali, l’autore dimostra padronanza nella compressione narrativa: in poche pagine costruisce caratteri credibili e scene che restano a lungo nella memoria del lettore.
Aramburu mostra quanto si possa dire omettendo. Nei dialoghi la violenza non è mai esplicita, ma si avverte nella pausa, nel non detto. Questa economia linguistica rimanda alla tradizione del racconto morale europeo (da Čechov a Buzzati), ma con un accento tipicamente iberico: un’ironia tragica, asciutta, che smorza l’enfasi senza dissolvere l’emozione.
Il tono alterna il registro realistico al grottesco: un uomo che si prepara serenamente al suicidio, una folla che osserva un ferito senza muovere un dito. Le situazioni sembrano assurde, ma il linguaggio le tiene ancorate al reale. Da qui nasce la forza del suo stile: la coesistenza di naturalezza e assurdo.
I temi indagati sono la condizione umana e la solitudine, la solitudine interiore, l’incomprensione e il modo in cui piccoli gesti (o la loro omissione) segnano la vita delle persone. Parimenti, si tratta di responsabilità morale e indifferenza che emergono negli episodi di passanti che non soccorrono, scelte etiche improvvise (mettere in salvo un vecchio o un bambino, ricattare un inquilino): mostrano la fragile rete di norme sociali e la facilità con cui essa si incrina.
Fernando Aramburu è uno degli autori spagnoli contemporanei più noti: nato a San Sebastián nel 1959, ha una lunga produzione che spazia tra romanzi, racconti e saggi; è universalmente conosciuto per Patria, che gli ha valso premi importanti e grande risonanza internazionale e che personalmente ritengo uno dei libri più belli di sempre.
La comparsa di una raccolta come Ultima notte da poveri conferma la sua familiarità con il racconto breve e la sua volontà di tornare a forme più compresse dopo i romanzi ampi e di grande eco pubblica, come Il bambino. Lo stile minimalista qui utilizzato è lontano dalla coralità di Patria. Dopo la densità epica di quel romanzo, Aramburu sembra qui voler ricondurre la letteratura alla sua ossatura morale: l’osservazione del comportamento umano.





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