“La morte dell’empatia umana è uno dei primi e più rivelatori segni di una cultura sull’orlo della barbarie”

    Hannah Arendt

In questi ultimi mesi, in queste ultime settimane in particolare, ho riflettuto tanto su alcuni aspetti del comportamento umano in risposta alle barbarie del genocidio del popolo palestinese, osservando le reazioni, dirette o indirette, sui social e sui media di persone comuni e dei cosiddetti “addetti ai lavori” (giornalisti, politici, governanti, esperti di ogni tipo..).

E mi sono chiesto: come sia possibile che una parte della popolazione, della politica e del giornalismo (nel mio caso italiano) sia completamente reticente nell’accettare l’evidenza di ciò che è accaduto e sta ancora accadendo, nonostante la presunta “pace” e continui a persistere su una narrazione dei fatti completamente deformata e forzatamente irrealistica?

Cosa poi più grave e umanamente ancora più incomprensibile è l’apparente (ma probabilmente reale) negazione empatica della sofferenza estrema di una popolazione devastata.

Riflettendo su questo rabbrividisco all’idea che esiste un bel pezzo della popolazione italiana che resta indifferente alla sofferenza, alle barbarie, alla guerra, allo sterminio di bambini, di donne e di uomini. Civili senza colpe, disarmati e indifesi.

Come è possibile che un pezzo di umanità tolleri tutto questo e riesca a giustificare senza troppi problemi un massacro, anzi un genocidio?

Esistono alcune spiegazioni psicologiche e sociali:

    in un articolo parlai già della deumanizzazione;

    poi esiste la disinformazione che fa la sua parte e amplifica un certo tipo racconto della realtà distorto;

    poi c’è l’appartenenza ad alcuni gruppi politici ed ideologie che determina, certamente, un certo tipo di narrazione personale apparentemente logica per chi la vive e si sente rappresentato in quei contesti dove vengono radicalizzate alcune idee e verità.

Ma c’è dell’altro?

C’è un assunto abbastanza intuitivo, secondo me: una persona è pur sempre una persona e da un appartenente al genere umano (super partes) mi aspetterei un atteggiamento di rifiuto, disgusto, tristezza e rabbia qualora si trovasse dinnanzi a una moltitudine di persone affamate, ferite, traumatizzate, percosse, torturate, uccise da un altro popolo o da altre persone che infieriscono.

Le reazioni emotive che ho descritto dovrebbero, in teoria, caratterizzare la risposta empatica di un qualunque osservatore a quelle immagini.. e a ciò che sta accadendo.

Possibile che esistano persone incapaci di provare empatia e incapaci di pensiero libero?

Probabilmente si.

Non si può parlare di sviluppo di pensiero critico e pensiero libero senza la capacità personale dell’accettazione e della comprensione del pensiero altrui.

Questa capacità la si acquisisce sin da piccoli, attraverso tappe cognitive, con la costruzione del “senso dell’altro” e di quella che più comunemente abbiamo imparato a definire come empatia.

Per capire il punto di vista dell’altro si devono combinare due forme di empatia: una forma emotiva (sentire le emozioni dell’altro) e una cognitiva (immaginarsi al posto dell’altro)

Lo sviluppo di queste capacità comincia già tra il primo e il secondo anno di vita quando il bambino comincia a imparare ad identificare le emozioni dell’altro oppure a provare sentimenti di approvazione e disapprovazione quando si è in relazione con altri esseri umani (empatia emozionale).

Tra i 4 e i 5 anni si manifesta invece la capacità di apprendere le credenze, i desideri e i comportamenti degli altri. Il bambino comincia a capire e immaginare le intenzioni e quindi anticipare i comportamenti degli altri. Dopo i quattro anni, quindi, cominciano a maturare quelle parti del cervello che sottendono alla capacità di cambiare la propria prospettiva. Il bambino comincia a padroneggiare la capacità di decentrarsi e quindi se necessario, utilizzare in modo intenzionale anche il punto di vista dell’altro. Si parla di empatia cognitiva.

A partire dai 9 anni la capacità emotiva e cognitiva, cominciano ad articolarsi fino ad una maturazione tale da permettere di sviluppare la capacità di integrare punti di vista diversi dal suo, sempre che l’ambiente in cui vive lo stimoli a farlo. Martin Hoffman parla di “assunzione di ruolo matura“

Il bambino a partire da quest’età comincia ad avere più chiare le emozioni e il punto di vista altrui e comincia ad avere più chiare anche le proprie emozioni. Questa condizione cognitiva è il presupposto per lo sviluppo del senso morale infatti l’assunzione di ruolo matura associata al senso di reciprocità permette al bambino di accedere ai valori morali e al senso di giustizia (in senso generale “umanità” e non solo associato al concetto di “famiglia”).

Ed è proprio questo step evolutivo cognitivo/emozionale che permette alle persone di “sentire” e “partecipare” al senso di sofferenza altrui.

Il problema è che per potersi realmente sviluppare, (quella che Hoffman ha definito assunzione di ruolo matura),bisogna che questa sia sollecitata ed incoraggiata (per potersi affermare), ugualmente per il comportamento morale. In particolare la fascia d’età compresa tra gli 8 e i 12 anni è quella critica, fondamentale, oltre la quale è veramente difficile poterla sviluppare.

Questo influisce molto sul libero pensiero di un ragazzo nella fase della preadolescenza. Un ragazzino che non ha avuto la possibilità di sviluppare la capacità di pensare e comprendere l’altro, oltre se stesso, avrà molte difficoltà a prendere in considerazione il punto di vista dell’altro in età adulta.

Questa modalità di pensiero sarà più soggetta alla fascinazione di pensieri settari e estremisti, autoreferenziali e a propagande e disinformazione.

    Questi giovani non rinuncerebbero al loro senso critico per effetto di un “condizionamento”, ma andrebbero loro stessi alla ricerca di una causa in grado di legittimare la loro propensione a pensare il mondo conformemente a un punto di vista unico    Serge Tisseron – Mente & Cervello (n. 138)

Quindi l’adolescente che non ha “imparato” a diversificare ed accettare punti di vista differenti oltre il suo sarà più facilmente tentato di seguire movimenti politici o religiosi radicali, perché potrebbero essere gli unici “luoghi” comunitari dove il suo pensiero e il suo atteggiamento verrebbe confermato.

Il problema, se così si può definire, è allora all’origine.

Un ragazzo o una ragazza cresciuti in contesti ambientali/familiari rigidi, poco inclini al cambiamento, alla diversità e molto ancorati a idee radicali, avranno molto probabilmente una mente già predisposta a non pensare in “libertà”.

Questa incapacità all’empatia e al senso dell’altro può avere a che fare prima di tutto con l’individuo, ma passa necessariamente dalla famiglia, dalla cultura, dall’ambiente sociale e ritorna come in un circolo all’individuo.

Si può allenare all’empatia, al senso dell’altro, alla diversità, al punto di vista dell’altro e al libero pensiero?

Si, si potrebbe fare nelle scuole, fin dalle primarie, ma pare non ci sia al momento la volontà di farlo.

Incoraggiare ed educare i bambini al pensiero critico, alla reciprocità e allo sviluppo della comprensione dell’altro è fondamentale per la crescita di una persona che abiterà il mondo e la società.

Solo attraverso un pensiero maturo capace di empatia è possibile ritornare a quel senso di umanità che pian piano stiamo perdendo.

    Gennaro Rinaldi – Psicologo Clinico e dello Sviluppo – Psicoterapeuta Sistemico Relazionale

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