Tanta ancora vita, di Viola Ardone, Einaudi Stile Libero 2025, pp. 336

Solo salvando un altro si salva anche sé stessi.Pag. 320

Con Tanta ancora vita Viola Ardone affronta il presente con un coraggio nuovo.
Ne Il treno dei bambini (2019), il piccolo Amerigo partiva da Napoli per raggiungere il Nord: era la storia dei bambini del dopoguerra, dei “viaggi della solidarietà” che segnarono una generazione.
In Oliva Denaro (2021), l’autrice denunciava la violenza culturale del “matrimonio riparatore” e difendeva la libertà di scegliere. In Grande meraviglia (2023) Ardone spalanca le porte chiuse dei manicomi per mostrarci che, spesso, la vera follia è fuori, non dentro.
L’autrice napoletana guarda oggi alla guerra in Ucraina e ai suoi riflessi nel nostro Paese.
La guerra, che ci sembrava lontana, entra nelle nostre case, nelle nostre strade, nelle nostre relazioni. Ardone la racconta non con l’occhio del cronista, ma con quello della narratrice che sa dare voce alle ferite dell’animo umano. L’autrice, qui, sviluppa una trama che innesta la grande Storia nel quotidiano, muovendosi dalla guerra in Ucraina al nostro paese, intrecciando tre voci in cerca di salvezza, cura e speranza. È un romanzo che prende posizione nel “qui e ora”, rispetto alle opere precedenti, e che lo fa, come sempre, con delicatezza, empatia e attenzione ai singoli – ma con uno sguardo anche sociale e politico.

Tanta ancora vita si presenta come un ponte tra “là” e “qui”: da un Paese in guerra a una città italiana, con le sue fragilità e ferite (nel romanzo Napoli e la casa di Vita). L’incontro tra queste due geografie vuol dire anche incontro tra due culture, tra chi scappa e chi riceve, tra chi perde e chi può accogliere. Un racconto che parla dunque di migrazioni (legate ai conflitti contemporanei), di ferite individuali e collettive, e di come la guerra – pur distante – abbia effetti anche sulle vite quotidiane del nostro paese: non soltanto come “notizia”, ma come intreccio di destini.
Questo “essere contemporaneo” segna una novità rispetto a precedenti romanzi di Ardone, che avevano spesso guardato al passato o a storie ambientate storicamente.

Una delle caratteristiche formali del romanzo è che la voce narrante è pluralizzata; il romanzo alterna i capitoli in prima persona dei tre protagonisti: Kostya, un bambino ucraino in fuga; Irina, la nonna che lavora come domestica a Napoli; e Vita, la donna italiana per cui Irina lavora, segnata dalla perdita del figlio.
Tre solitudini che si incontrano. Tre voci che diventano un coro.

Il dispositivo narrativo scelto da Ardone — la prima persona alternata — permette al lettore di entrare dentro ciascuna esistenza: di sentire la paura del bambino che affronta da solo il viaggio dall’Ucraina all’Italia, del non comprendere la lingua, di sentire la nostalgia della nonna che ha lasciato tutto alle spalle, così come la disperazione silenziosa di una donna che crede di aver perso la capacità di amare.
Ogni voce costruisce un pezzo della trama, ma soprattutto del sentimento che unisce le tre figure: il bisogno di cura.
Il vantaggio narrativo è doppio: da un lato, l’uso del “io” rende la vicenda immediata, vissuta; dall’altro, il cambio di voce permette di restituire dimensioni differenti di esperienza, senza che ci sia una voce “onnisciente” che giudica o spiega tutto. È il soggettivo che domina, e questo aiuta il lettore a percepire la complessità dell’incontro, della cura, del mutamento.

Lo stile di Ardone è, come sempre, sobrio e diretto. Frasi brevi, ritmo intimo, dialoghi essenziali. Ogni parola pesa, ogni silenzio conta. Non c’è retorica né pietismo, ma la capacità di far parlare i gesti, i piccoli momenti, gli sguardi. Il linguaggio cambia leggermente con ogni voce narrante: più ingenuo e frammentato nel bambino, più concreto nella nonna, più introspettivo in Vita. Questo conferisce al romanzo una profondità polifonica che riflette la complessità del mondo che descrive.

In termini tematici è in linea con quanto già Ardone faceva nei suoi romanzi precedenti – l’attenzione all’infanzia, al punto di vista “dal basso”, al cambiamento – ma qui la struttura è raffinata e adeguata al tema dell’intersezione di destini e culture.

In questo senso, Tanta ancora vita prosegue sì la linea dell’autrice – la narrazione di vite segnate, lo sguardo ai margini, la solidarietà – ma sposta il focus: non più solo storie italiane del passato, ma un evento contemporaneo, un conflitto reale, un’Italia che è meta e casa e rifugio e che, allo stesso tempo, è chiamata ad accogliere e trasformarsi.
Un passaggio importante, perché Ardone non si limita più a “ricordare” o a “ricostruire”, ma a raccontare il presente, l’impatto diretto di eventi globali sulle nostre comunità e vite individuali.

Ardone non racconta la guerra con scene di battaglia o cronache dal fronte. La guerra è uno sfondo reale e concreto, ma percepito attraverso chi fugge, chi resta, chi accoglie.
Kostya e Irina rappresentano la ferita dell’esilio e della perdita, mentre Vita incarna quella, diversa ma affine, della solitudine e del dolore privato. L’Italia, in questa storia, non è solo luogo d’approdo ma spazio di incontro: una casa napoletana dove i confini tra chi aiuta e chi è aiutato si confondono.

Tanta ancora vita è, nel senso più pieno, un romanzo del nostro tempo. Racconta l’attualità senza rinunciare alla tenerezza, e parla di guerra attraverso la lente dell’umanità. Ci ricorda che, anche nei momenti più bui, resta sempre “tanta ancora vita”: nei legami che nascono, nella cura reciproca, nella possibilità di ascoltare l’altro.

È un libro che tocca corde profonde, perché mette in scena il dolore e la speranza di chi fugge da una guerra, ma anche di chi, pur restando, deve ritrovare il senso di vivere.
Un romanzo che, pur ambientato tra Kiev e Napoli, parla a tutti noi, cittadini di un mondo attraversato dal conflitto ma ancora capace di solidarietà.

L’opera narrativa di Ardone, nel suo complesso, intreccia impegno civile, sguardo sociale, attenzione alle emozioni e linguaggio limpido. Dalla lezione di Dacia Maraini eredita la scrittura etica e la pietas verso i più deboli, mentre nello stile conserva la limpidezza di chi crede che la letteratura possa ancora essere un atto di cura. Un umanesimo contemporaneo che guarda ai traumi del passato e del presente con empatia, rigore e speranza.

Per questo, credo che possa essere accostata a diverse autrici che lavorano su territori simili: la memoria, la marginalità, la cura, la Storia vissuta “dal basso”. Penso a Donatella Di Pierantonio, che, ne L’Arminuta, racconta l’infanzia ferita, le madri imperfette, le radici e il legame tra Sud e Nord. Entrambe costruiscono un linguaggio essenziale ma carico di affetto, e danno voce ai sentimenti inespressi.
E anche a Giorgia Tribuiani, Simona Vinci, Melania Mazzucco: con loro condivide la volontà di raccontare il dolore senza cedere al patetico, unendo ricerca formale e impegno civile.
Ho pensato anche a Rosella Postorino, soprattutto a Mi limitavo ad amare te, visto che per entrambe la guerra – e i suoi effetti, anche quando se ne è fuggiti – è uno specchio del presente, e perché entrambe utilizzano l’empatia come strumento politico.

Qui potete leggere l’incipit.

Una replica a “Viola Ardone, Tanta ancora vita: la guerra, la cura e la speranza che uniscono i destini by Pina Bertoli”

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