L’aveva vista dapprima tenue, azzurra, gorgogliante come uno zampillo e poi mutare, sprigionare calore, crescere e infine prepotente come un drago passargli sopra la testa e raggiungere, con bizze di un aquilone strattonato dal vento, i covoni di frumento accatastati sopra il fienile in attesa della trebbiatura.
Rannicchiato nel suo buio nascondiglio ancora non sapeva che suo padre, nel disperato tentativo di salvare il salvabile, aveva una gamba spezzata e giaceva sul pavimento della cucina con lo sguardo perso alle travi carbonizzate che ancora sprigionavano acre fumo.
Intanto il bimbo percepì i rintocchi dell’Ave Maria dal campanile lì vicino, ogni sera scendevano sulle case a santificare le quotidiane fatiche ma quella sera a lui, affamato e impaurito sotto l’umido ponte della roggia appena fuori paese, arrivavano sordidi, meschini e ogni rintocco era un’accusa, un dito puntato ad indicare lui quale sicuro e maldestro colpevole.
Un gioco doveva essere, un gioco per ingannare quell’afoso pomeriggio di fine giugno, gabbare quelle ore lente a scorrere, mute, desolate, quando persino i grandi si ritiravano in casa per ritemprare le forze e tornare poi alle fatiche dei campi.
Lui non riposava mai, proprio non ce la faceva e quel tempo sospeso lo divideva di nascosto con Angelo che era arrivato da poco in paese con la sua famiglia; il loro arrivo aveva destato scalpore e tutti si chiedevano chi erano quei foresti, cos’erano venuti a fare, da dove e da cosa erano fuggiti; Angelo era balbuziente, ma l’unico della famiglia che disperatamente cercava di comunicare e per questo vagava per le strade del paese a ogni ora e quel pomeriggio si erano incontrati.
“Ggg… ggio… ggioc… ggioccamo?”
Quella sua difficoltà nell’esprimersi era stata già etichettata dai più come segno demoniaco, funesto, provava che su quella famiglia di sicuro c’era una maledizione divina a punire inconfessabili colpe, persone quindi da evitare.
“Sì” invece gli rispose, così senza scambiar parole si diressero fuori paese, girovagarono in cerca di nidi poi ritornarono verso casa non prima di aver catturato alcune lucertole.
“Le cuciniamo, costruiamo una stufa, dai prendi quei mattoni, anche quelle tegole, sbrigati.”
“Ssss… ss…sì…ddd…dda…dai.”
Ora ricordava chiaramente i suoi occhi, li vedeva nel buio del suo nascondiglio apparire come quelli dei gatti vagabondi intravedendo ancora in quello sguardo disperato l’attimo in cui l’irreparabile si era affacciato.
“Cc…co…co…cc…cooo… ”
“Scappare ecco cosa dobbiamo fare, scappare subito.”
Angelo corse verso il paese senza voltarsi come una lepre impaurita e braccata dai cani, lui invece si diresse fuori, verso i campi trovando subito rifugio e nascondiglio sotto il ponte della roggia non troppo distante da casa sua e prosciugata in quei giorni.
Ansimante si appoggiò alle pareti coperte di muschio, il cuore in gola e dopo poco avvertì dei fastidi, guardò i suoi piedi e notò che le sanguisughe lo avevano aggredito, erano numerose in quella scarsa e maleodorante acqua e quelle striscioline nere gli provocarono disgusto.
Si chinò cercando faticosamente di staccarle, ma il suo movimento spaventò le salamandre che disturbate e impaurite, tentando la fuga, gli passarono accanto impazzite sbattendogli sui polpacci sino a farlo trasalire. Perse i sensi.
Fu risvegliato dall’urlo delle sirene dei pompieri, timoroso si sporse e ciò che vide fu l’ala destra della sua casa, quella del fienile e della stalla, completamente avvolta dalle fiamme e in quel rogo la sua modesta abitazione assumeva, alla sua vista, una superba immagine biblica.
Rimase per un istante impietrito come Mosè davanti al rovo che ardeva miracolosamente senza bruciare, “Finisse così”, pensò, ma subito dopo si scosse e non gli sfuggì l’imperizia dei pompieri, quel rogo in quel paesino sperduto era per loro poca cosa, notando invece l’efficacia della catena umana dei vicini che si passavano alacremente secchi d’acqua dalla pompa pubblica forti del convincimento di poter salvare almeno l’altra ala della cascina di quella povera famiglia.
Il tempo a volte accelera, altre fa brusche frenate, per lui quel pomeriggio si era fermato realizzando un presente infinito, la tragedia che si stava consumando si compiva in una statica temporalità e l’orologio della vita riprese di nuovo il suo cammino solo verso l’imbrunire, quando il buio incipiente mostrò che l’incendio era domato.
La coscienza prima, il rimorso dopo l’obbligò a ripercorrere quelle ore, l’incontro con Angelo, insieme nei campi, il gioco, la rudimentale stufa fatta di mattoni e coppi appoggiati l’un l’altro, l’incendio, le sirene, il fumo, i curiosi che spingevano per ammirare l’inconsueto spettacolo; non ci sarà più un incendio nei successivi trent’anni e nessuno se ne ricordava uno prima.
Violentando con una forza inaudita per un bambino della sua età, la paura, decise di rimanere nascosto lì a sfidare il buio, i misteriosi abitanti che come lui trovavano rifugio sotto il ponte della roggia, affrontare le ore della notte, il freddo, la fame, la solitudine, sapeva anche che poco lontano, oltre il campo c’era il cimitero, intravedendo le tenui fiammelle delle candele a ricordare le morti recenti. Chiuse gli occhi.
Suo padre intanto supplicava disperato i vicini che erano venuti a fargli visita di continuare anche di notte le ricerche di suo figlio e nemmeno la fumante scodella di minestra che anche in quell’occasione gli avevano portato riusciva a distoglierlo dal pensiero di dove fosse finito; tre giorni, da tre giorni non c’erano più notizie del suo bambino a far supporre il peggior epilogo.
Imbruniva e come ogni sera il Parroco uscì dalla canonica, breviario fra le mani, per la recita delle orazioni e come d’abitudine prese il viottolo che, dopo aver lambito le ultime case, portava dritto al cimitero e lì davanti al cancello, come suo solito, avrebbe terminato con un requiem.
Non interrompeva mai la preghiera e ai paesani che al suo passaggio lo riverivano rispondeva chinando e sollevando il capo, ma quella sera ai lamenti di quel povero padre s’arrestò per riflettere come avrebbe potuto dare conforto a quella famiglia.
Le soluzioni dei drammi non arrivano presto, bisogna incorniciare la situazione, capire le circostanze, intravedere un dopo e mentre inseguiva questi tortuosi percorsi la confusione prese il sopravvento sui sentimenti, ma proprio in quello stato di sopra pensiero gli parve di udire un gemito, poi un altro, un altro ancora, lamenti che somigliavano ai singhiozzi dei bambini, il breviario gli cadde di mano.
Si chinò per raccoglierlo e subito ebbe conferma che lì sotto quel ponte c’era qualcuno, senza esitazione tirò su la tonaca, scese a lato della roggia aggrappandosi ai rami, impigliandosi in rovi e faticosamente riuscì a scendere giù fino all’imboccatura del ponte e fu grande sollievo.
“Sei tu! Grazie Madonna dai esci, vieni fuori, sono il Parroco, allunga la manina, da bravo così.”
Un morticino, ecco cosa apparve al ministro di Dio sulla terra, quel bimbo che gli stava venendo incontro con passi incerti era la sacra rappresentazione di Lazzaro che tre giorni dopo usciva dal suo sepolcro febbricitante, pallido, stremato e quando gli fu vicino intravide nei suoi occhi uno sguardo disperato, ma ancor prima di accoglierlo fra le braccia quella sfinita creatura ebbe la forza di gridare con quanta più forza aveva in corpo, fra le lacrime, la sua supplica:
“Non voglio tornare a casa, non posso tornare a casa, Reverendo non mi porti a casa”.
Subito dopo se lo trovò aggrappato alle gambe, usò la tonaca per asciugarlo, per toglierli dal viso il muschio, la ruggine, il fango, gli ripulì sommariamente gambe e piedi, lo protesse sino a nasconderlo sotto la tonaca.
“Stai tranquillo, non andiamo a casa, torniamo alla canonica per i campi.”
La perpetua non aveva mai visto il Parroco in quello stato.
“Cos’è quella veste tutta sporca Don, cos’è successo, che cosa nascondete lì sotto per l’amor di Dio.”
Senza dar ascolto alle sue parole iniziò a sbottonare e a togliere la veste sacerdotale.
“Vergine Maria, ma è lui, dove l’avete trovato, povera creatura come stai, vieni qua vicino al camino, sia lodato Gesù Cristo.”
Nemmeno in occasione della visita del Vescovo si era raggiunta in canonica una simile agitazione ma ciò che prevalse fu l’urgenza di dare al padre del piccolo la buona notizia.
“Dai corri veloce, vai da suo padre, tranquillizzalo pover’uomo, ma digli anche che il bimbo non torna subito a casa, andrà da sua zia per qualche giorno, hai capito bene? Prima vai dal padre poi avvisi la zia.”
“Corro, corro reverendo.”
La zia arrivò in canonica con un cambio completo: mutandine, maglietta, pantaloncini sottratti dal guardaroba del figlio e insieme alla perpetua, sotto lo sguardo compiaciuto e felice del Parroco lo immersero in una tinozza di acqua tiepida, il bambino sentiva ritornare a scorrere il sangue nelle vene e il suo corpo riprendeva, dopo gli stenti di quei tre giorni, colorito.
“Bravo così- se lo accarezzava la zia – adesso sfreghiamo anche la testa, leviamo via queste ragnatele, questo sporco, ci puliamo bene e poi vieni a casa della zia”; il bimbo annuiva.
La vestizione si trasformò per le due donne in rito e canottiera, pantaloncini, sandali si trasfigurarono da modesti indumenti, in paramenti sacri a vestire gli ignudi, lui, seduto sulla seggiola, aspettava solo che la zia finisse perché desiderava a quel punto lasciare la canonica prima possibile poiché iniziava a provare imbarazzo; fatto salutarono la perpetua, riverirono il Parroco e mano nella mano, come due clandestini, presero la scorciatoia dei campi.
“Vuoi una minestrina o il risotto?”
“Risotto.”
“Ne vuoi ancora?” – “Uhm.”
La zia incredula guardava quella testolina inabissata con animalesca ingordigia nel piatto e commossa sino alle lacrime gli versava il terzo mestolo di risotto, gli altri al tavolo, divertiti, ammiccavano scambiandosi sguardi increduli.
“Bevi, su, è fresca, c’è anche l’idrolitina.”
Quando ebbe finito sparecchiò, il bimbo sopraffatto dalle tensioni di quel giorno e dalla pancia finalmente esageratamente piena, lasciò cadere la testa sul tavolo là dove la tovaglia manteneva ancora il tiepido del piatto e cadde in un profondo sonno.
“Sss… buoni… sss… lasciatelo lì, vado a preparargli il lettino.”
Non furono notti serene quelle passate dalla zia perché ogni sera e per molte sere all’imbrunire, un severo riscotitore si presentava a chiedergli conto del suo misfatto, di sicuro era mortale il peccato che aveva commesso, ne era convinto, e portava dritto all’inferno.
Le angosce tutte allora prendevano il sopravvento sino a farlo balzare urlante sul letto, aggredito da lancinanti dolori e incontenibili bisogni corporei che lo obbligavano a correre precipitosamente giù nell’aia a liberare l’intestino rimanendo poi mortificato, impietrito, solo, sotto un imponente manto di stelle.
Quella notte si ricordò di una preghiera: “Avvolto di luce come di un manto, Tu stendi il cielo come una tenda.”
Intelligibile per lui, in quelle notti, il cielo sopra la casa della zia e gli pareva amorevole come quello che, secoli lontani, aveva avvolto la capanna del bambino Gesù.
Lo trovava assorto così, tutte le notti, la zia e faticava non poco a convincerlo a tornare su a dormire, teneramente gli parlava:
“Vedi quante stelle, sono tutte tue, contale, una… due… ottanta… ma quante sono, non finiscono più dai, conta tutte quelle attorno al comignolo… quante sono, più di cento, bravo, vieni torniamo a dormire le altre le contiamo un’altra volta”.
Docilmente a quel punto il bimbo la seguiva, lo sguardo rivolto all’indietro per continuare la conta sino a che, nel letto, cadeva in un profondo sonno dal quale si ridestava a mattina inoltrata.
Quel mattino però si svegliò prima disturbato forse dalle voci che provenivano dalla cucina, scese con circospezione le scale e si fermò sull’uscio a spiare la zia che parlava concitatamente con lo zio ma nonostante il tono e l’animosità non sembrava però un litigio, aguzzò le orecchie.
“Me l’ha detto il Parroco, mi ha fermato dopo la messa, vuole che tutto il paese li aiuti.”
“Giusto, ma come?”
“E non vuole che si sentano poveretti, non si può mandarli in giro per il paese con il bastone e il sacco della raccolta come i mendicanti.”
“Come si fa allora, te l’ha detto?”
“Ha in mente un carro addobbato a festa che attraversa il paese, lo dirà nella predica di domenica, ognuno poi metterà sopra quello che potrà.”
“Ma loro non hanno un carro e nemmeno un cavallo.”
“Noi sì.” – Lo zio ammutolì e si mise a girare nervosamente intorno al tavolo.
“Dove trovo il tempo con tutto quello che ho da fare.” – “Non lo dovete fare voi.”
“E chi allora, il bambino?” – “Il bambino no, ma suo fratello grande sì!”
“Oh signore quello scapestrato, dare in mano il cavallo a lui, che poi non lo conosce, per me non sa neanche bardarlo e tenere le briglie e sbatterà nelle curve, mi rovinerà le ruote del carro e poi… ”
“E poi basta – lo interruppe con fermezza la zia – non fatela così lunga, farete a meno per mezza giornata di carro e cavallo, non sarà la fine del mondo e poi quello che si dà ritorna.”
Si accorse del nipote.
“Sei tu? Vieni, come mai così presto, siediti, preparo il latte.”
Nella fumante scodella smarrì la discussione che aveva appena origliato e nei suoi pensieri scomparve anche la volontà di comprenderne il significato, corse fuori a giocare.
Domenica, il suono festoso delle campane raggiunge anche le case più lontane del paese, per le vie è un brulicare di persone che si avviano verso la chiesa, gigante buono, a proteggere e rincuorare pene e fatiche di tutti.
Sul sagrato c’è un’insolita animazione provocata da quel carro bardato a festa a ricordare quelli pittoreschi dei coscritti, ma non c’è chiamata alla visita di leva e la questua del fieno c’è già stata.
Le donne, velo nero ricamato sul capo, sguardo curioso e mal celato, entrano diligentemente e con anticipo in chiesa, continueranno sui banchi a lato della cappella della Madonna i loro bisbigli fingendo di recitare preghiere, incuriosite anche loro da quella presenza.
Gli uomini tardano oltre il previsto, nemmeno quelli della confraternita di San Sebastiano hanno una spiegazione e solo l’ultimo richiamo, quello della campanella che suona proprio nell’istante in cui il sacerdote lascia la sacrestia, li induce a interrompere le più bizzarre congetture e a entrare in chiesa infilandosi rumorosamente sui banchi a sinistra, a lato della cappella della Pietà.
“In nomine patris et filiis et spiritus Sanctus.”
La celebrazione eucaristica inizia in una palpabile, generale disattenzione, lo sa anche il celebrante che il pensiero dei fedeli, quella domenica, è distratto dall’insolita presenza là fuori sul sagrato, al vangelo però non vola una mosca.
“Dal vangelo secondo Luca”: In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo:” Congeda la folla, perché vada nei villaggi e nelle campagne dintorno per alloggiare e trovar cibo, poiché qui siamo in una zona deserta ». Gesù disse loro: «Dategli voi stessi da mangiare». Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente”. C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai discepoli: “Fateli sedere per gruppi di cinquanta». Così fecero e li invitarono a sedersi tutti quanti.
Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste”.
Terminata la lettura dell’omelia il Parroco con gesto teatrale richiuse rumorosamente il vangelo e con sguardo determinato squadrò tutti i fedeli che all’istante compresero che stavano per ricevere un importante monito.
“Cinque pani e cinque pesci… per cinnnquemmmiiilaaa uomini che avevano fame, cinque pani e cinque pesci che sfamano cinnnquemmmiiilaaa persone e ne avanzano dodici ceste?”
Lunga e imbarazzante pausa, silenzio prolungato del sacerdote che obbliga i fedeli a interrogarsi e a tentare di comprendere il reale motivo di quella sospensione.
“Non crederete mica ai miracoli!”
Intimoriti dalla domanda i fedeli s’interrogavano l’un l’altro con sguardi imbarazzati e nei banchi c’è grande confusione, qualcuno bisbiglia:
“Che cosa vuol dire, lo conosciamo bene è il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, è andata così, un miracolo.”
Lasciati pochi attimi ai mormorii, con ancor più fervore il Parroco riprese.
”Non crederete mica che da un pesce salti fuori un altro pesce… magari già fritto… e un altro ancora… che spezzando una pagnotta ve ne trovate cento! Il miracolo c’è stato ma è stato d’amore, un miracolo di carità… in mezzo a quei cinquemila c’era chi non aveva nulla e c’era chi aveva cibo in abbondanza, il miracolo che ha fatto Gesù è stato quello di aprire i loro cuori e così, spontaneamente, ognuno dei presenti svuotò nelle ceste la propria sacca mettendo a disposizione di tutti, tutto ciò che possedeva. Avete capito?
Questo è stato il vero miracolo, Gesù con cinque pani e cinque pesci è riuscito a sfamare cinquemila persone! Riuscirete voi a sfamarne tre?”
Sguardi persi fra i banchi: “Chi dobbiamo sfamare?”
Riprende il sermone.
“Ricordate l’incendio? Quella famiglia non ha più nulla e noi dobbiamo sfamarla non per un giorno, ma per un anno, lì fuori avete visto il carro, questo pomeriggio attraverserà il paese, poi farà ritorno qui sul sagrato, se sarà pieno di riso, pasta, sale, zucchero, lardo, salame, farina, olio, sarete stati capaci di un miracolo.
Avete capito bene, ci siamo capiti bene? Sia lodato Gesù Cristo.”
La parola del vangelo mai come quella domenica penetrò nei cuori e ogni presente si sentì parte dei cinquemila raccolti attorno al Signore, eccitati, sentirono anche ardere volontà e poteri che non pensavano di possedere, capirono inoltre che il divino sapeva, poteva e voleva ancora albergare sulla terra, ne avvertirono la presenza e questa vicinanza accorciò mirabilmente la distanza fra terra e cielo, tra sacro e profano.
“Ite missa est.”
Nella ressa che si era creata sul sagrato alla fine della celebrazione, la zia faticò non poco a recuperare il nipote, gli uomini, infatti, anziché filare dritto come loro solito verso l’osteria per il bicchiere domenicale discutevano fra loro e prevaleva dai loro ragionamenti l’impegno, la volontà di fare questo miracolo e mentre si faceva largo fra loro lo vide infine dietro al carro mentre accarezzava il muso del cavallo.
“Dai su vieni, non perdiamo tempo, a casa è tutto pronto, mangi e poi con tuo fratello fate il giro del paese, sei contento?”
“Anch’io?” – “Certo.” – “Che bello.”
Le raccomandazioni dello zio non finivano più: attento qui, attento lì, ai marciapiedi, lo sterrato, le curve, le pietre sporgenti, poi il cavallo tira a sinistra, soffre la briglia, controlla le sponde, in cuor suo a cercare ancora di evitare quella dolorosa cessione di barroccio e cavallo, ma alla fine si decise e scuotendo pensieroso la testa, li lasciò andare.
Fu un trionfo.
Il carro avanzava a rilento per le vie del paese poiché ogni famiglia povera o ricca che fosse, era sull’uscio, pronta con la sua offerta: farina, riso, pane, zucchero, sale, olio, salumi come raccomandato dal Parroco e ben presto il barroccio si riempì di ogni ben di Dio e sopra vi finirono persino galline, anatre, conigli, addirittura un maialino, il giro del paese si prolungò così sin verso sera, richiamati e obbligati a percorrere anche i vicoli più fuori mano i due fratelli, alla vista di tanta tangibile generosità, non si sentirono più mendicanti bensì beneficiari di una
straordinaria lotteria divina e furono pervasi da incontenibile euforia.
Fu così che arrivati in fondo al paese anziché invertire la marcia e fare ritorno alla chiesa spronarono il cavallo e iniziarono una pazza, liberatoria corsa nei campi, ridevano i due fratelli, euforici si scambiavano pacche, urlavano!
Il baroccio traballava pericolosamente, le galline e le anatre schiamazzavano impaurite, il maialino grugniva furibondo, i sacchi rotolavano l’uno sopra l’altro, si ruppero delle uova, ma tutt’intorno, su di loro, a protezione, c’era il creato a iniziare da… messer lo frate sole che dopo aver resa radiosa quella giornata regalava ora un infuocato tramonto… sora Luna e le stelle che timidamente iniziavano ad affacciarsi… clarite et pretiose et belle… frate Vento che scompigliava al loro passaggio le fronde dei pioppi e più in là a bruciar le stoppie anche… frate Focu che era tornato ad essere … bello et iocundo et robustoso et forte.
Tutt’intorno… sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi che al passaggio potevano proprio toccare con mano: dorate spighe di grano, tenero trifoglio, maggengo, cicoria, giovani piante di granoturco, i dolcissimi frutti del gelso, ciliege, verdure degli orti campestri e infine, laggiù, scintillante eccola la… sor aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
A pochi passi dal fiume il cavallo, lasciato brado, accortamente decise di porre fine a quella folle corsa e, puntando le gambe sul greto ghiaioso con quanta più forza gli rimaneva, riuscì a bloccare faticosamente il carico evitando che finisse in acqua; si abbeverò la povera bestia imitato dai ragazzi che, rinsaviti dallo scampato pericolo e osservando il sole che rapidamente scendeva dietro il pioppeto, intuirono che era ora di fare ritorno.
Sul sagrato intanto il Parroco faticava a tenere calmo lo zio.
“Lo dicevo io che non c’era da fidarsi, oh Signur dove si saranno cacciati, oh mamma mia, il mio povero cavallo.”
“State calmo, state calmo, arriveranno, tranquillo, eccoli là cosa vi dicevo stanno arrivando.”
Lo zio tirò finalmente un sospiro, il Parroco benedì la provvidenza divina e si ritirò in preghiera.
“Grazie mio Signore, ti ringrazio per aver voluto ripetere il miracolo qui fra questo mio umile gregge, cercheremo, ci sforzeremo di essere degni del tuo infinito amore. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo amen.”
Il carro arrivò sul sagrato, la loro casa era poco lontano.
“Forza dai ragazzi che è tardi, andiamo che ci sarà da faticare a scaricare tutta questa roba.”
Era passato molto tempo da quel lontano pomeriggio, non ricordava quanti giorni era stato dalla zia, quanti nascosto sotto il ponte e ora d’improvviso i dolorosi ricordi gli si ripresentarono cancellando all’istante l’ebrezza di quell’incredibile giornata.
Scoppiò in un pianto dirotto, a consolarlo uscì la perpetua che, commossa, stava osservando la scena dalla finestra della canonica.
“Non devi aver paura, sono stata anche oggi da tuo papà, ti sta aspettando, non vede l’ora di abbracciarti.”
“Davvero? Sicura? Ma io… ”
“Dai su da bravo, salta sul carro va, più tardi arrivo anch’io.”
Siamo all’epilogo, alla resa dei conti, il momento che più di tutti aveva temuto era arrivato e fra i tanti, di sicuro, era questo, per lui, il più amaro.
E’ lì sull’uscio con la pena nel cuore.
È lì sull’uscio come ombra.
Nessuno s’è ancora accorto di lui.
È lì sull’uscio immobile.
È lì sull’uscio schiacciato dal carico della sua colpa.
È lì sull’uscio, ma ardentemente vorrebbe essere altrove.
È lì sull’uscio senza alcuna speranza.
È lì sull’uscio con la certezza infantile che non può esserci perdono.
È lì proprio sull’uscio di casa che non riesce più a considerare sua.
È lì sull’uscio a scrutare fra le lacrime suo padre steso su un giaciglio di fortuna.
È lì pronto a convincersi che era meglio sparire e morire sotto il ponte.
“Che cosa fai lì impalato dai entra, forza” …
arrivata provvidenzialmente, con una leggera spinta, la perpetua persuade il bimbo a varcare la soglia.
“E’ tornato, vostro figlio, è qui.”
“Il mio bene, il mio più grande bene, finalmente… vieni… vieni qua”…
spalancando le braccia.
Il bimbo rimane a distanza e osserva quell’uomo che disperatamente cerca di rialzarsi, vede le sue smorfie di dolore, l’arto fratturato non gli consente di fare ciò che più di tutto desidererebbe fare in quel momento: alzarsi, corrergli incontro, abbracciarlo, sollevarlo per aria, baciarlo.
S’interroga e proprio non capisce come suo padre lo possa chiamare “bene, il mio più grande bene”, lui, proprio lui che ha mandato in cenere il poco che possedevano.
Lo fissa negli occhi e vede lacrime che mai prima aveva visto su quel volto bruciato dagli stenti, dalla fatica e dal sole e gli sembrano di gioia, di desiderio. Possibile?
Inaspettata si affaccia allora nella sua giovane mente l’idea, sino a quel momento sempre rifiutata, che ci possa essere comunque per lui un perdono, la testa gli gira, questa nuova ipotesi lo disturba, lo obbliga a rivedere, ripensare tutto il castello delle sue funeste certezze.
Fissa suo padre, lo vede agitarsi, sollevare a stento il capo, protendere con gesti sforzati ed innaturali le braccia che si allungano a significare desiderio paterno di abbraccio.
Non più lui, ma una voce miracolosa gli suggerisce il da farsi, prende coraggio e si lancia di corsa verso suo padre ma, prima di abbandonarsi fra le sue braccia si arresta, si genuflette e con grido disperato, fra le lacrime, supplica il perdono.
“Papà perdono, perdonatemi” … e subito dopo, con calcolo animalesco, ma per lui conseguente, indirizza al padre, balbettando, la sua supplica:
“Mi volete ancora?”
Aspettando, in ginocchio, una temuta replica. Che non ci fu.
Il padre riuscì ad afferrarlo, ad abbracciarlo, lo soffocò di carezze, di baci, se lo tenne stretto per un tempo che più nessuno ricorda mentre urlava felice:
“SI, SI, SI SI SI SI SI.”
Tanto bastò al figlio che si sentì liberato dalle colpe come un peccatore da un’indulgenza plenaria, con l’anima monda corse fuori raggiante ad aiutare lo zio e il fratello che stavano scaricando il carro.
Garrulo come un passerotto riportò un quotidiano sereno sotto quel tetto e la giovane età, una incosciente capacità di rimozione, lo aiutarono a cancellare quei brutti ricordi che lasciarono nel profondo della sua anima solo poche, labili tracce.
Nota finale: ora che il racconto è terminato mi accorgo però di aver attribuito nome solo ad Angelo, il bambino balbuziente; corro ai ripari e vi segnalo quello degli altri protagonisti in ordine di apparizione:
Il bimbo protagonista: Paolino
Il padre: Amedeo
I pompieri: senza nome
I vicini: Piero, Attilio, Rosetta, Giovanni, Amilcare, Gianna, Simone, Rosa, Carlo, Marco, Remo, Giuseppe, Mario, Battista
Il Parroco: Don Agostino
La perpetua: Agnese
La zia: Giovanna
Lo zio: Giuseppe
Gli altri piccoli al tavolo: Evaristo, Lucia, Francesca, Luigi e Rosetta
Il cavallo: Furia
Il fratello: Andrea
La mamma, assente nel racconto, un nome l’aveva: Laura e avrebbe voluto di sicuro esserci, ma
lasciò il suo adorato Paolino subito dopo il parto, un imperscrutabile disegno divino l’aveva portata in cielo sei anni prima dell’incendio.
[ SiteLink : Teresio Bianchessi ]
[ Immagine in evidenza : Icy & Sot ]





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